tel_aviv

Note dal fronte orientale #1

La prima volta era di là, ora sono di qua.

Ogni città ha la sua periferia: per non scontentare la rete del capitalismo globale anche Tel Aviv ha la sua. E ciò significa che anche Tel Aviv ha i suoi capannoni vuoti, i suoi agglomerati di case popolate da branchi di gatti, i suoi graffiti dissacranti che ricoprono e ricolorano i muri scrostati e mezzi crollati. Anche qui trovo le sue commesse di ventitré anni nei supermercati affogati nell’aria condizionata da microclima polare, i suoi energumeni incastrati in una bottega stretta a spacciare sigarette e pacchi d’acqua minerale. Anche Tel Aviv, in ebraico collina della primavera, è percorsa nella sua epidermide più grigia da scheletriche figure che trascinano carrelli della spesa, altre che si coricano sulle panchine ai bordi delle strade, tra sacchi di immondizia, materassi sgualciti e televisori frantumati.

Ho messo piede in un ostello che è uno dei capannoni vuoti di questa periferia. Il padrone è un israeliano allampanato infilato in una canottiera e un paio bermuda da lavoro, con le chiavi che cinguettano perennemente appese su un fianco alla cintura; sfoggia un codino di pelo scuro annodato sulla nuca, un sorriso sagace: mi spiega come abbia già sistemato un paio di questi edifici dismessi, come stia cercando di recuperare gli spazi vuoti della città. Gli chiedo quanti anni ha.

Trentanove.

Oh, caro, sei vecchio sai!, rido. Mi pareva molto più giovane, caspita.

Lo so, risponde furbo. Succederà anche a te, se sei fortunato.

Quanto ha ragione. Sono colpito da questa sua arguzia: la prima volta ero di là, ora sono di qua. C’è da chiedersi davvero se anche io se sarò altrettanto fortunato. Sicché mi tocca convenire nella mia unica e ormai abituale certezza: mai paura. Ed è così che comincia.

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