Questo film ci vuole morti. Scazzo e disagio al Ca’ Foscari Short Film Festival

di Mattia De Franceschi

Eravamo sul Linea 20 in direzione San Marco quando il disagio ha cominciato a farsi sentire. Ricordo di aver detto qualcosa del tipo, che merda la vita, forse dovremmo morire, quando di colpo eccomi circondato da meme nichilisti – riverberi postmoderni usciti dallo schermo del mio smartphone ed una voce che urlava Dio è morto! E noi lo abbiamo ammazzato.

Uhm. Vibrazioni negative stasera, nessun amore per i punti di riferimento epistemologici e la morale è stata gettata in laguna quando hanno blindato San Marco. Il beat delle onde contro lo scafo del vaporetto mi ricordava i Rammstein: no, this is not a love song. Indeed. Non avremmo trovato amore al Ca’ Foscari Film Festival – difficilmente avremmo trovato qualcuno di ancora umano.

Eravamo i migliori per quel lavoro: filosofi, ironicamente suicidi e con solo mezzo litro di Karpackie in mano. Chi fa di sé una bestia, si libera del dolore di essere umano. A noi avevano tolto ogni bestialità attraverso massacranti routine universitarie. Sì, eravamo pronti. Dovevamo trovare il sogno del cinema.

Primo contatto, un impero di zombie e il ghigno di Orwell

Mercoledì universitario. Cacofonia. Esseri ricurvi che tendono volantini davanti all’auditorium. Pile di paccottiglia brandizzata come tanti micromoloch. Brutto colpo – la ferita da cui doveva sgorgare a fiotti il sangue vivo del cinema ridotto ad un ammasso di cicatrici dall’aspetto ecclesiastico. Spettri di registi piangono negli angoli bui, ammassi di carne con una macchina da presa deambulano boriosamente tra la folla. Fisso gli addetti ai lavori nei loro occhi vitrei e vedo solo il mio riflesso – ma non sono io e a loro della reificazione dell’immagine non gliene sbatte un cazzo. Consolazione: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere, Ecclesiaste 3, 20. O era Dziga Vertov?

Ci vuole un badge per entrare, grafica firmata Igort come il poster ufficiale dell’evento – sparato sul telone di proiezione, presenza ineludibile in sala. Guardo lo schermo poi guardo il mio badge poi guardo tutti gli altri badge. Grande fratello, grande fratello. L’esperienza lascia il film per depositarsi su di noi in un alone pentecostale, abbiamo visto il film perché abbiamo il badge e abbiamo il badge perchè abbiamo visto il film. Le luci muoiono, la Luce prende vita. La proiezione comincia, è il momento dell’Esperienza – d’altra parte, i film hanno un inizio ed una fine, no?

Risate nel buio, la vendetta tedesca e un generale sentimento di ribrezzo per l’umanità

Al mio fianco un giovane tedesco prova emozioni rumorosamente, concerto per gutturalità ad un solo esecutore. La visione diventa tassonomia delle sue emissioni sonore: ride quando una ragazzina tredicenne fuma erba al suo compleanno, sussulta quando ci dicono che la causa sono gli abusi notturni del cugino. Applaude la risoluzione dei conflitti (ha memorizzato le fasi della favola di Propp), è insensibile ai paesaggi (la pittura figurativa è un altro cadavere eccellente). Tette: felicità. Suicidio: abbattimento. Il difficile equilibrio trovato da una giovane indiana tra la fede islamica del marito e il suo induismo: indifferenza, noia, apatia, afasia.

L’intera sala lo guarda male, ognuno per pochi secondi (esprimere sentimenti senza calcificazioni ironiche che li tengano separati da noi è orribile, dai, insomma), ma Schlegel è vendicato: esiste lo spettatore ideale, ed è lui. Fottiti, Nietzsche: prenderemo la tua estasi dionisiaca e ne faremo un obbligo, ostracismo totale per chi non riesca a fondersi emotivamente con il film. No pasaran!

Pausa. Qualcosa di sbagliato – il germanico esempio non è sempre perfetto. Alcune scene lo lasciano muto. L’emozione non è totale, Dioniso Zagreo maciullato dal montaggio. Seconda ipotesi: stiamo giocando con il regista. Ah. La verità è sempre autoevidente un volta trovata. Non siamo di fronte ad una storia, qualcuno ci sta masturbando. Il ritmo delle sequenze si fa chiaro, ognuna risponde ad una logica esterna, ognuna aderisce ad un prototipo riconoscibile. Il significato ci viene servito con chiarezza da mani calde e morbide. Addio ermeneutica, ora si legge a dito. Capisco gli sguardi di disprezzo: ognuno raggiunga l’orgasmo con riservatezza, suvvia.

Teoresi selvaggia, prassi decostruttiva – uno spettro si aggira per l’Auditorium Santa Margherita

Dilatazione temporale. Un secondo per me, ma che valga eoni – cinematograficamente, è il momento del pippone autoriale. Riempire la silhouette di Hitchcock è difficile, propongo di distruggerla e rimpiazzarla con un piano sequenza di venticinque minuti girato in un cimitero diroccato. Ecco, partiamo da qui.

Alcuni dicono che gli autori sono morti – concordo. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la motosega con cui finire questi olezzosi zombie. Un colpo al collo, secco! Ma ci trema la mano al pensiero di finire questa presenza, così a lungo amica. Oh, familiare volto – come posso maciullarti il sorriso? Codardia, questa. Perché la vera domanda, quella che trova nell’omicidio la sua metafora, è: come fare a meno della mano del regista, questo doppio pastore che conduce immagini e spettatori? Abbiamo il coraggio di guardare un film e – audibili sussulti – trovarci noi un senso, creare una storia dove potrebbe non esserci dove, anzi, non c’è mai stata?

Domanda idiota, come chi la pone. Certo che possiamo, l’abbiamo sempre fatto, continuiamo a farlo. Vivere è un continuo atto di produzione di valori, storie e narrazioni, la nostra prima, propria e più sicura libertà – e già tentiamo in ogni modo di sabotarla, rinchiudendola (coscientemente o no) in geografie di confini e limiti, subordinando tutto a schemi concettuali creati o ereditati; perché estendere la nostra tremebonda pigrizia all’arte, perché sporcare di terrore quello che è il momento più creativo che abbiamo? Perché permettere ad un regista, un occhio con il solo privilegio dell’a priori produttivo, di rubarci la possibilità di creare?

Il cinema è la possibilità della sensazione che non potremo mai provare resa accessibile, immanente davanti a noi; la possibilità del non detto che parte dal detto, il porre un volto per permettere di immaginare tutti quelli non rappresentati; la possibilità di dimenticare i nostri confini e diventare uno cento mille corpi; la possibilità di sentire il movimento cardiaco del cosmo in un film dove, solamente, si guarda calare la notte.

E tutto questo andrà perduto nel tempo, come lacrime nella pioggia. Questo cinema ci vuole morti, ma solo perchè glielo abbiamo chiesto.

Caffeina autoindotta, il rumore di mille manganelli sulla mente e un epilogo con un ghigno

Cazzo. Era stato tutto un sogno? Lo sguardo percorre le file, vuote ed in procinto di esserlo, dell’Auditorium. Sentivo discutere dei film. Avrei voluto fosse solamente un incubo. Il corpo segue il flusso lento della folla – mi sento globulare, una particella sanguinolenta. Ma per quale corpo? Il cinema? I cortometraggi? Forse esistono solo quando ci siamo noi a vederli – no. Non c’è spazio per quest’ipotesi stasera, non dopo queste parole. Che qualcuno mi abbia sentito? Spero di no. I profeti se li è inghiottiti tutti il deserto – soprattutto quelli che lo facevano per divertirsi.

Ora d’aria ora, liberato dalle prigioni, in procinto d’evasione. Il mercoledì universitario continua a procedere nella sua marcia di distruzione, la sacra tecnica macinacarne è il nuovo culto laico.

Imprevisto, danger. Una folla si muove a scatti, brandendo cartelli. Una manifestazione, di poco meno pericolosa che un linciaggio – potenzialmente, sono lo stesso. Devo muovermi ai margini, gettando occhiate discrete. Non guardarli mai negli occhi. Si sentono sfidati. Intorno a noi, un anello di poliziotti, confini dentro confini dentro confini. Geografie del controllo spiraleggiano – capisco di trovarmi nel mezzo della manifestazione per un presidio in Campo Santa. Non mi trattengo, fuggo. Non c’è spazio per giudizi morali stasera, non dopo essere stati al capezzale del cinema. Troppe morti, per voler aggiungere il mio cadavere.

Al limitare della piazza, sento solo una frase, oh, con la telecamera, vedi di aggiungere altra gente con photoshop poi che vogliamo si pensi ci fosse folla. Sorrido. Allora non sei morto, bastardo. Ti hanno solo rapito – e quando ti portano via qualcosa, rimane solo l’atto di liberazione.

Per un eventuale interesse ai singoli disagi cinematografici, andate a soffrire questi video sul mio canale YouTube:

Prima espettorazione virtuale

Seconda espettorazione virtuale

Terza espettorazione virtuale

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