Beirut for dummies from one of themselves – Lesson #3

Lezione #3: Non ingrassare.

Gli habitué del trasloco all’estero conoscono lo sforzo di uscirsene con qualcosa di fantasioso, brioso e intelligente alla domanda “allora, cos’è che ti piace di vivere qua?”.

Ora più che mai, sembrare una brillante laureata in cerca della sua strada, indipendente e incurante degli ostacoli che la vita le pone davanti – quali? L’accento dei tassisti? L’assenza di brioches alla crema nei bar alla mattina? Il rischio di venire investita ad ogni incrocio perché è pieno di manzi che mi distraggono? – non è mai stato così difficile. Perché l’unica vera, genuina risposta che la mia mente partorisce è “Il cibo”. Io amo il cibo di questo Paese.

Figura 1 – dall’archivio di una di quelle personalità disturbate che apparentemente fotografano qualsiasi cosa prima di mangiarla.

Questa meraviglia si chiama Fatteh. Tipo fatteh ‘na corsa, che è quello che serve per smaltire una bomba di bontà del genere. Infatteh – e giuro, è l’ultima – questo è un piatto da colazione, a base di yoghurt, ceci, sottilissimo e croccantissimo pane fritto, prezzemolo e semi di melograno, il tutto annegato in olio di oliva e aglio. In teoria la cosa andrebbe mangiata al cucchiaio ma io, da brava italiana scarpettara, ho abbandonato le buone maniere, imbracciato due pagnotte di pane arabo come fossero due kalashnikov e intinto senza ritegno il braccio fino all’altezza del gomito nella ciotola. Per i due giorni successivi ho seminato morte e distruzione ogni volta che ho aperto bocca ma, visto che i miei due vicini di banco erano tedeschi, è finita che ci siamo subito trovati, e per un po’ devono avere pensato che avessi qualche radice teutonica pure io. Invece era solo la fiatella.

Insomma, tra fatteh, fattoush, manoushe, humus, halloumi e akkawi, mi sono intortellata. E qui non è come il Marocco o la Tunisia che più sei tanta più sei bella. Qui siamo in Libano: ci sono 4 donne per ogni uomo e, per la quantità di cibo ingurgitata nelle prime due settimane, con uno solo dei miei pranzi avrei potuto nutrire per un mese le altre 3 donne in batteria con me. Non che lo avrei fatto, dato che apparentemente se non sei un modello la cittadinanza libanese non te la danno, ma potenzialmente avrei potuto.

Figura 2 – dall’archivio personale dell’autrice.

La settimana scorsa, oltre all’assenza di brioches alla crema e all’accento dei tassisti, mi sono quindi trovata a dover affrontare un’ulteriore difficoltà: non mi si chiudevano i jeans. O meglio, sì, ma dopo un’ora avevo le gambe color cobalto. Che non si intona con niente.

Dopo cinque fallimentari giorni passati ad insalata e melanzane, poi terminati alla 4 di notte di fronte ad una scatola di cioccolatini vecchi, appurato come la dieta non fosse una strada percorribile, ho deciso di tentare la via dello sport e , considerato che la vita a Beirut è più costosa che a Milano – ma gliela perdono perché a Milano se lo scordano il fatteh – l’unica attività rimasta per noi studenti attenti al budget e alla linea è la corsa su strada. Ergo lo jogging.

Il problema è che se a Venezia, correndo la sera, nella peggiore delle ipotesi si può incappare in un nugolo di turisti spaesati, a Beirut c’è un’alta probabilità di incappare in una protesta.

Che non fosse una città pacifica lo avevo intuito dal rapporto decisamente alto di 3S”G – ovvero numero di Soldati per Gatto, metodo tramite cui si analizza la stabilità di un Paese calcolando la presenza militare per ogni felino, insieme alla disamina del peso corporeo dei soggetti G randagi. Organizzazioni e agenzie non governative, trovate il mio contatto su LinkedIn – ciononostante, trovarsi con le gambe molli a 50 metri da lacrimogeni ed agenti antisommossa mi ha preso alla sprovvista.

Per intenderci, io al liceo ero quella che votava contro occupazione perché in due settimane c’era la verifica di matematica: se da lontano vedo un fumogeno mi viene un attacco di cuore e uno di panico.

Il ciclo di proteste in questione è cominciato a luglio, quando la discarica principale si è riempita completamente. “E perché non ne hanno usata un’altra?” ho chiesto ad un libanese, cercando di mangiare il gelato dalla fronte. La risposta è che a quanto pare coordinare qualcosa in Libano è l’equivalente di mettersi d’accordo al liceo su chi si debba offrire volontario all’interrogazione di fisica.

Detta in parole molto povere, il sistema politico libanese è diviso su base confessionale, il che significa che ad ogni religione viene affidato un corrispettivo ruolo politico a seconda del peso percentuale che questa ha a livello demografico. Il problema è che, vista l’importanza che ha poi assunto l’appartenenza religiosa, l’ultimo censo demografico ufficiale è stato fatto nel 1932. Che non è proprio l’altro ieri. Dopodiché, per evitare di turbare equilibri già precari – o in pratica mai raggiunti –, si è scelto di continuare con lo status quo. Per cui tuttora il presidente del parlamento è musulmano sciita, il primo ministro musulmano sunnita e il presidente della repubblica è cristiano maronita. O almeno, lo sarebbe se al momento ci fosse un presidente della repubblica, cosa che non avviene da più di un anno. Il risultato è un sistema estremamente rigido e frammentato che, invece di armonizzare le diverse comunità a livello, ne rappresenta e ne accentua la divisione e gli interessi particolari.

Negli ultimi mesi, quindi, la spazzatura ha cominciato ad accumularsi sulle strade, al punto che si è deciso di utilizzare gli autisti di Uber come spazzini – esatto milanesi, potrete essere fighi quanto volete, ma non sarete mai chiamo-l’autista-a-pulirmi-la-strada-fighi.

Parallelamente, oltre alla zbeli (monnezza), alle mosche e alla puzza, ad accumularsi è stata anche la rabbia dei libanesi, poi sfociata nel ciclo di proteste raccolte sotto l’hashtag #YouStink – ovvero: puzzate –, slogan riferito alla classe politica libanese e all’inettitudine con cui ha trattato un problema in previsione da anni.

Al momento, dopo le prime piogge autunnali – ho girato in maglietta a maniche corte fino ad una settimana fa, sudando – il problema pare essersi ingigantito: la pioggia infatti ha creato veri e propri fiumi di immondizia e liquame per le strade e, non potendo essere smaltita correttamente, l’acqua si è infiltrata nel sottosuolo, danneggiando seriamente l’agricoltura. Io, da amante delle melanzane, ho pagato il prezzo del mio amore in dieci giorni di intossicazione alimentare e circa tre chiletti di fatteh depositatosi sul punto vita. Il che ha reso la nobile attività dello slalom tra proteste momentaneamente superflua, aumentando quindi le mie probabilità di uscire indenne da questa città (se il cibo, il traffico, l’inquinamento o, in generale, l’ordine naturale delle cose non mi seccano prima).

Per cui, avviso agli wanna-be-beiruti secchioni e fifoni come me, non ingrassate. Oppure fatelo, ma portatevi dietro pantaloni più larghi, e non i jeans da ottimista che avete comprato nel 2013 un mese prima di iscrivervi in quella palestra che poi non vi ha mai visti.

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