LEZIONE #1: Non portare scarpe con la suola liscia
La seconda lezione imparata è in realtà intrinsecamente legata alla prima. Se avessi comprato una mappa, infatti, avrei potuto vagamente immaginare la natura montuosa di Beirut. Per cui sì, c’è il mare, ma no, non per questo la città è piatta. Ragionamento, per una romagnola come me, assolutamente contro-intuitivo.
Così i miei primi 15 minuti a Beirut li passo ad ammorbare il taxista ad ogni salita e discesa. “Ah ma non è piatta?”. Mi indica le mini-montagne attorno. “Ma c’è il mare!” continuo entusiasta mentre mi indica una linea nera che ipotizzo sia acqua. “E come si dice – gli mimo una salita – in arabo?” mi guarda confuso, chiede se voglio camminare. Non ho ancora visto un solo cartello in arabo (l’inglese domina neanche fossi a Londra), le strade sono più illuminate che a Venezia e intorno a me palazzi di 20 piani si alternano ad altri di 15 piani, in uno strano paesaggio a grafico.
Non è decisamente il paesaggio mediorientale che mi aspettavo: zero cammelli, zero piramidi ma soprattutto neanche l’ombra di un estremista barbuto.
Figura 1 – Grafico del paesaggio a grafico di Beirut.
Di nuovo, la mia logica del salto nel vuoto a tutti i costi mi frega: lo stile di Beirut dopo il 1990, infatti, non ha niente a che fare con la tradizione o la razionalità. La ricostruzione* è un inchino ai panorami di Dubai e un enorme dito medio sia al regolare sviluppo urbano fino al 1975, sia a quelli come me che si mettono i sandali non sapendo che dovranno arrampicarsi per lunghissime salite lastricate per raggiungere casa loro.
*Micro-parentesi per i non addetti ai lavori: Beirut, dal 1975 al 1990, è stata semidistrutta da una guerra civile. In pratica, la città per 15 anni è stata divisa militarmente e geograficamente tra cristiani e musulmani, i primi con base ad est di Rue de Damas, i secondi ad ovest.
Figura 2 – screenshot da “West Beyrouth” (1998)
La ricostruzione, avviata nel 1991 sotto la guida della Solidere di Rafic Hariri, invece di cercare di riunificare ed armonizzare una città profondamente divisa, si è concentrata principalmente su una zona marittima alla fine di Rue de Damas: Downtown Beirut, che rappresenta circa il 10% delle zone severamente colpite dalla guerra. Il risultato è stato una sterile e lussuosissima Via Condotti libanese sotto steroidi, letteralmente isolata dal resto della città sia a livello urbano – Downtown è delimitata da una strada larghissima a più corsie: ad attraversarla sembra di entrare in un parco giochi – sia militare, perché, essendo la sede di più edifici istituzionali, ad ogni ondata di proteste le entrate vengono recintate con il filo spinato e protette dall’esercito. Esercito che, tra parentesi, pensa di mimetizzarsi con posti di blocco coperti da foglie: immaginate la vetrina di Armani con l’ultima collezione esposta, e di fianco degli omini armati vestiti di verde, beige e nero barricati dietro a una trincea color palude. È tutto vero, giuro.
Figura 3 – da “Beirut divided: the potential of urban design in reuniting a culturally divided city”
Per cui, tuttora, ad est di Beirut la maggioranza dei quartieri è cristiana, mentre ad ovest si concentrano i quartieri islamici, decisamente più rispondenti ad un’idea – stereotipata – araba/mediorientale, anche se, visto che non ci sono né cammelli né piramidi, non è che siano poi così tanto mediorientali. Però, esempio stupido, ad Achrafie (est) puoi comprare la pancetta nei supermercati, ad Hamra (ovest) no. Lo sa bene la mia coinquilina che, impuntatasi su una carbonara, ha insistentemente chiesto ad un pio musulmano impiegato di un supermercato di portarle della pancetta, ricevendo in cambio occhiate di disappunto. Comunque, quello che non si trova né ad est né ad ovest né a sud né a nord è il seitan o il tofu, perché va bene la libertà di culto, ma in Libano i vegetariani proprio non ce li vogliono. Siamo e rimarremo per sempre un popolo della diaspora, amici miei.
Tirando le fila, ciò che stona è che mentre Dubai è stata costruita in mezzo ad un deserto di sabbia e nulla, in un armonico e coerente susseguirsi di pateccherie su pateccherie, a Beirut il nucleo ricostruito era ed è totalmente sconnesso dal contesto in cui si inserisce.
Ed è qui che caschiamo sia io che l’asino. L’asino per i motivi qui sopra elencati, io perché casa mia – il mio palazzone – era arroccata su una salita mortalmente pericolosa, con un ingresso strategicamente sbilenco in pietra liscia e NERA. Roba che quando uscivo la mattina avevo 7 secondi per attraversare la hall – chiaramente sprovvista di aria condizionata – dopodiché il cervello cominciava a sciogliersi e si andava incontro a morte certa cucinati come dei biscotti. Una volta scappati dal forno, ci si impiegava 15 minuti a percorrere a micro-passi la discesa mortale verso la salvezza 40 metri più in basso. Alla fine della discesa, una folla in festa ti acclamava accogliendoti con the caldo, coperte e biscotti.
Per cui, per le prime due settimane, non solo ho vissuto a Beirut ma anche a San Francisco (vedi le stupide salite che ho scoperto chiamarsi “tal3a” in arabo libanese… parlo con te Tassista Perplesso), a Dubai (palazzoni) o a New York (di nuovo palazzoni). O meglio, come io immagino sia viverci. Il che potrebbe non corrispondere per niente alla realtà, vista la mia avversione naturale alla sopravvivenza e alla geografia.
In generale, e concludo, a chi cercasse casa a Beirut consiglio a) di non portare scarpe con la suola liscia, b) di comprare una mappa, c) di utilizzare il mio indice G-A (Gatto-Affitto) per determinare il tipo di quartiere in cui si vuole vivere. Il calcolo è semplicissimo: si misura il benessere o meno di un quartiere a seconda del numero di gatti randagi presenti in zona; maggiore il numero di randagi, minore l’affitto. Per un’analisi più accurata si può prendere in considerazione anche la massa corporea del felino, ma questi sono esami avanzati che non vi sto qui a spiegare.
In bocca al lupo con la ricerca e non dimenticatevi le pedule.
di Camilla Cimatti
Molto realistico e ben strutturato! Bella immersione nell’atmosfera di Beirut
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