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Lucia Sambo è un’attrice amatoriale della compagnia teatrale Piccolo Teatro Città di Chioggia. Insieme ai suoi compagni, porta in scena soprattutto opere di teatro dialettale: tra i titoli più conosciuti, le Baruffe Chiozzotte di Carlo Goldoni, commedia in dialetto chioggiotto che il Piccolo porta in scena da anni nei teatri d’Italia e d’Europa. Il rapporto di Lucia con le sue radici e con la sua città, Chioggia, ha invogliato la redazione a chiederle di parlare delle due forme di linguaggio da lei più utilizzate: il dialetto e il linguaggio teatrale.
Cominciamo con l’intervista: sei pronta?
Sì, ho bevuto anche due goti (bicchieri) di rosso per togliermi tutte le inibizioni.
Hai fatto bene. Da ormai diversi anni, tu sei attrice del Piccolo Teatro Città di Chioggia: da quanto tempo reciti con questa compagnia? Ci sono altri progetti a cui partecipi/hai partecipato che ti piacerebbe menzionare?
Non era ancora il 2000, per cui ventitré anni sicuri. A dire il vero, non ho fin da subito iniziato a recitare con il Piccolo: ho iniziato con un regista che, tra l’altro, è stato uno dei fondatori del Piccolo Teatro Città di Chioggia intorno agli anni ‘50. Oltre al mio ruolo nel Piccolo, comunque, ho fatto diverse comparsate. Ho anche partecipato alla Marciliana, una delle rievocazioni storiche più importanti a Chioggia: in quell’occasione ho interpretato una fattucchiera sotto processo da parte dell’Inquisizione.
Siccome sei sempre stata in contatto con la parlata vernacolare di Chioggia, com’è il tuo rapporto con il dialetto, anche in riferimento alla tua esperienza di vita?
A essere sincera, il 90% del tempo parlo il dialetto, soprattutto in famiglia, accompagnandolo con l’italiano quando serve. Diciamo che, se il chioggiotto è il mio abbiccì, l’italiano, invece, lo parlo solo quando ho a che fare con persone che non vengono da Chioggia: magari non lo parlo con una dizione perfetta, ma comunque cerco di parlarlo. Per il resto, però, parlo chioggiotto a nastro. E ti dirò di più: io uso le parole arcaiche di Chioggia, quelle che altrimenti andrebbero, per così dire, sepolte. Ci tengo a dire questa cosa, perché queste sono le nostre radici.
Ci sono degli aneddoti riguardanti il dialetto che ti andrebbe di raccontarci?
Moltissime volte dico delle parole o delle espressioni in chioggiotto che la gente non capisce: succede quasi tutti i giorni, anche con i locali, perché il dialetto che uso io è quello arcaico, per l’appunto. Ad esempio, un’espressione antica che utilizzo è sevente e dosana, che si riferisce all’alternarsi dell’alta e della bassa marea; si utilizza in frasi del tipo: mi qua fago sevente e dosana come che vogio mi, “io qua faccio quello che voglio come voglio io”. In breve, è come se dicessimo che uno fa il buono e il cattivo tempo. Queste frasi, a volte, le uso un po’ anche per riderci su. Sono parole che si usavano molto tempo fa, prima del boom economico, quando Chioggia ancora viveva di pesca.
Cos’è per te il dialetto?
Il dialetto, per me, è cultura: rappresenta le nostre radici, il legame con i nostri avi. Del resto, il nostro dialetto è un miscuglio di influssi diversi, dovuti ad eventi storici avvenuti molti secoli fa. Ad esempio, per un certo periodo siamo stati dominati dai francesi: per indicare l’armadio, infatti, noi diciamo armuà, che deriva proprio dal francese armoire.
Bene, Lucia, spostiamoci ora verso il teatro. Com’è cominciata la tua esperienza teatrale?
Ufficialmente, come ti dicevo, poco prima del 2000. In realtà, però, ho iniziato a recitare quando ero piccola: non mi sono mai vergognata di niente, sono disinibita, e mi è sempre piaciuto stare sopra il palco. Per carità, all’inizio erano delle recitine così, da parrocchia. C’è da dire però che io sono sempre stata affascinata dal teatro, soprattutto da quello dialettale. Ho realizzato finalmente il mio sogno nel 1999 con Le donne gelose di Goldoni. A dire il vero, ho cominciato un po’ così, per gioco: di lì a breve, però, è diventata una passione, una valvola di sfogo, qualcosa che mi è entrato nel DNA. Che poi, la cosa bella del teatro è stare in compagnia dei tuoi amici attori: dopo un po’, infatti, si diventa una famiglia. Il mio salto di qualità l’ho avuto quando sono entrata nel Piccolo Teatro Città di Chioggia, il primo vero teatro a Chioggia. Là ci sono state diverse esperienze interessanti… siamo addirittura andati all’estero! C’è stato infatti un periodo in cui l’assessore alla cultura ci ha permesso di fare un gemellaggio che ci ha portato fino a Saint-Tropez. Un’altra occasione è stata in un centro culturale a Vienna. Poi siamo andati in altre località, europee e non: siamo stati a Londra, ad esempio, e pure in Marocco.
Hai parlato di come nella tua compagnia ci sia questa sensazione di familiarità tra compagni: come credi si formi questa “grande famiglia” nel teatro?
C’è sicuramente cameratismo, questo è poco ma sicuro. Poi – sai cosa? – quando è finito lo spettacolo, nella maggior parte delle volte si va a fare, come si dice a Chioggia, ganzèga (festicciola): ci si dà ai festeggiamenti, e allora si scarica tutta l’adrenalina che si è accumulata durante la commedia. In questa famiglia, però, non c’è rivalità. Al contrario, c’è spirito di collaborazione: dietro le quinte ci si aiuta, ci si fa i complimenti, ci si dà la carica. Si punta all’unione, più che alla competizione.
Da diversi anni porti in scena le Baruffe Chiozzotte di Goldoni. Quale credi sia il valore delle Baruffe per Chioggia e per il dialetto chioggiotto?
Secondo me le Baruffe sono la manifestazione più importante della cultura di Chioggia. C’è un altro progetto, poi, di cui faccio parte: le Baruffe in calle. Questa iniziativa si è ormai trasformata in uno spettacolo conosciuto a livello mondiale (anche il New York Times ha scritto al riguardo): di fatto sono le Baruffe Chiozzotte portate in scena, in forma itinerante, a Chioggia. Secondo me, ecco, le Baruffe in calle sono proprio la manifestazione culturale più importante della nostra città…come la Marciliana, anche se per questa sono di parte.
Che cos’è per te il teatro?
Il teatro, amatoriale nel mio caso, è per l’appunto ama-toriale, perché io lo amo. Lo amo perché posso essere qualsiasi tipo di persona… sempre nei limiti delle mie possibilità, ovviamente! È anche una valvola di sfogo, e, come ti dicevo prima, c’è una forte amicizia che lega gli attori di una compagnia. È anche, ti dirò, un fatto culturale, perché con i copioni scopro certe sfaccettature nuove di robe (cose) che prima davo per scontate.
Sentendo anche i giovani parlare, riesci a percepire un cambiamento nel dialetto chioggiotto? Se sì, quale? Credi che sia importante un’educazione al dialetto e alla tradizione nelle scuole?
Un cambiamento c’è stato eccome: i giovani stanno sostituendo sempre di più l’italiano al dialetto. Sono ovviamente contenta che venga parlato l’italiano nelle famiglie: le nuove generazioni, però, parlano pochissimo il chioggiotto. Per me questa è una cosa sbagliata, in quanto sarebbe meglio parlare sia l’italiano che il nostro dialetto, in modo da non perdere le nostre radici. Pertanto io sarei d’accordissimo ad inserire anche nella scuola, dopo che nella famiglia, un’educazione al dialetto. Ci vorrebbe una sorta di bilinguismo, ecco, che si muove tra casa e scuola. Da questo punto di vista, anche il teatro potrebbe essere un’ottima strategia: col teatro perdi l’inibizione, la timidezza. È utile anche a livello sociale, specie quando si parla di teatro dialettale.
Per concludere, visto che nella tua compagnia tu sei la regina degli aneddoti e delle storie, se ti va, raccontacene una!
La mia militanza nel mondo degli aneddoti e delle “perle di saggezza” è lunga, per questo non saprei bene cosa dirti! Se vuoi però posso raccontarti di com’era la vita a Chioggia un tempo. La vera Chioggia la vivevi in Riva Vena, il vero cuore pulsante della città. Da lì potevi riconoscere le stagioni, perché le bancarelle di frutta e verdura avevano prodotti diversi in base al periodo. In primavera, per esempio, c’erano le patatine novelle (i colombini pelai), la succa (zucca). Poi c’erano le signore, che andavano di porta in porta a vendere i sugoli, un dolce tipico di Chioggia che si fa col mosto d’uva. A dire il vero, un tempo si viveva in calle: là le donne si mettevano, per esempio, a lavorare col telero, delle assi di legno su cui tessevano la tela. E allora si socializzava proprio in calle, i bambini giocavano al campanon (a campana), alla corda. Si bisticciava, e le mamme non si mettevano in mezzo, perché tanto poi si faceva sempre la pace. Tra l’altro, questo fatto è legato anche al teatro: noi ci mettevamo a giocare alla mamma, al dottore, fingevamo di vendere cose. La vita in calle era un continuo recitare. È un po’ anche per questo che io e i miei compagni non abbiamo avuto difficoltà ad approcciarci al teatro. A noi viene naturale fare le Baruffe, perché questo era il nostro pane quotidiano. Per questo motivo, credo che quella teatrale sia la forma giusta per catturare l’essenza della Chioggia di un tempo. Tutto nasceva dalla calle, dal quotidiano, dalla semplicità e dalla naturalezza del vivere. La mia persona, del resto, è uscita dalla calle ed è stata portata nel teatro. Praticamente, sono uscita dallo spettacolo della vita di calle per entrare nella vita di calle di uno spettacolo. È anche vero che io non sono una di quelle vecie de cale (vecchie di calle) di una volta: sono un po’ più acculturata, e sicuramente meno ciaciarona (chiacchierona)! Chioggia comunque rimane una cultura a sé, tra il mare e la terraferma: siamo ospitali, ciaciaroni, barufanti, però alla fine femo pase (facciamo pace). Abbiamo uno spirito da pescatori, sì, ma alla fin fine “tutto è bene quel che finisce bene”. Insomma, ti verzi una bossa de vin, ti bevi e ti magni in compagnia, e te passe tuto (Apri una bottiglia di vino, bevi e mangi in compagnia, e ti passa tutto)!
Grazie, Lucia, per il tempo che ci hai dedicato. Possiamo concludere con un bel brindisi: al teatro, a Ciosa e alle ciosote!
E viva!
Foto del Piccolo Teatro Città di Chioggia
