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“<Davvero? Nessun archivio?>
<Sì, hai capito bene, nessuno. Siamo senza memoria>
…
Il nostro archivio è hooyo [“madre”, NdR].
…
E anch’io in un certo senso sono un archivio. Perché ricordo.”
Non è semplicissimo parlare di un libro che ti ha fatto piangere, soprattutto se di solito non ti capita di piangere per un libro.
Da dove iniziare?
Mi ha incuriosito fin da subito, ovvero all’incontro con l’autrice stessa, a Incroci di Civiltà, in quella splendida cornice che è l’auditorium Santa Margherita: è un libro sulla lingua, anzi sulle lingue. L’italiano come lingua colonizzatrice eppure lingua franca degli affetti, il somalo come lingua madre intraducibile eppure lingua che va disperdendosi nelle geografie familiari, l’inglese come lingua nuova eppure lontana e non sempre condivisa. È un racconto orale, trasformato in lettera per una nipote poco più che ventenne: una memoria fatta storia per la nostra generazione oggi poco più che ventenne, nata dal desiderio “di farsi ponte per chi si affaccia alla giovinezza”. È un libro che cerca di tenere unite le generazioni e i pezzi di una famiglia, ma anche due luoghi: Roma e Mogadiscio, l’Italia e la Somalia. Due luoghi che, purtroppo, nell’immaginario collettivo italiano non associamo immediatamente (o almeno questo è l’errore che ho fatto io finora): questo è lo schiaffo più grande che ho ricevuto da questo libro.
Ma non è il solo. È sicuramente un libro sul colonialismo italiano; ma decisamente non solo.
È certo una testimonianza. Sulla guerra, sulla diaspora, sulle secondo generazioni, sul Jirro (letteralmente “malattia”, parola somala scelta per indicare il trauma post-bellico) che tutto permea.
In primis però è un libro sulla famiglia, sui ricordi, sul dolore, sui silenzi che abitano le nostre case. E anche per questo (anzi soprattutto per questo) è una testimonianza, un memoriale che dà radici a chi non è radicato. A chi appartiene alle persone e alle storie, ma non ai luoghi. Non proprio una saga familiare, quanto piuttosto un andare continuamente avanti e indietro nel tempo, mentre chi racconta e chi ascolta siedono su un divano e sorseggiano qualcosa di caldo. Oppure ricamano e così insieme al filo si fissa per sempre anche la voce narrante. E poiché siamo tutti esseri umani, nell’universalità delle situazioni, dei dialoghi, dei sentimenti, ogni lettore può trovare pezzi di sé o leggere quello che avrebbe bisogno di sentirsi dire. O almeno per me è stato così.
È un libro che si fa leggere d’un fiato, ma allo stesso tempo per me è stato spesso necessario letteralmente posarlo un attimo e respirare. Inghiottire l’aria con gli occhi umidi. Parla a tanti aspetti di noi e sono anche convinta che spesso leggiamo una storia quando è il momento giusto per farlo. È una storia densa e intensa, piena di vita, quella stessa vita che soffoca come un serpente in gola e che bisogna mordere forte. Questo non significa che sia un libro pieno di orrori e angosce, impossibile da leggere, per persone forti o cose del genere. No. Però è un libro che fa commuovere ed è difficile raccontarlo perché non sono completamente razionale nei suoi confronti. A volte fa vergognare. Oppure fa sentire forte il desiderio di fare davvero qualcosa, qualcosa di utile, la famosa differenza.
Non penso sia un libro che possa vincere il Premio Strega, questo lo dico francamente. Semplicemente non è quel tipo di libro…
Il mio augurio più grande è che questa candidatura permetta a questa storia di essere letta, diffusa e condivisa. Perché il torto maggiore che si può fare è non sapere, non ricordare, non parlare.
