Il mio amico Holden

Sulla quarta di copertina de Gli anni di Annie Ernaux, uno dei libri che negli ultimi anni sono stati più in grado di fare breccia nel mio cuore, c’è una semplice domanda che tuttavia ben riassume l’intento dell’autrice nel cucire insieme le proprie riflessioni autobiografiche: “Come accade che il tempo che abbiamo vissuto diventa la nostra vita?”

Mi trovo in seria difficoltà nel cercare una risposta. Comincerei scomponendo il problema e riformulando la domanda: Come accade che i libri che abbiamo letto diventano quello che pensiamo? Credo sia indispensabile partire da qui per tracciare una mappa della nostra personalità: siamo le esperienze che viviamo, le scelte che facciamo, e di conseguenza, irrimediabilmente, anche quello che leggiamo.

Purtroppo però la memoria non mi è sempre amica e non saprei dire quanti anni avessi quando ho preso in mano per la prima volta Il giovane Holden. Quindici, forse sedici? Ad ogni modo, si è trattato di un momento non meglio precisato di quella bolgia confusa di pretese di intellettualismo e velleità ribelli della mia adolescenza – per quanto, rispetto alla media, questa sia stata a conti fatti quello che si può definire “tranquilla”, tanto che al punto di identificarmi con lo scapestrato Holden non ci sono mai arrivata, non avrei potuto.

Forse la simpatia che ho da subito nutrito nei suoi confronti era anch’essa appunto velleitaria, dettata dalla consapevolezza che non sarei mai stata come lui per quanto mi sforzassi (senza successo: non era proprio nella mia natura) di prendere certe cose più alla leggera e combinare qualche pasticcio ogni tanto.

Qualunque sia la ragione, io gli scapestrati li ho sempre trovati affascinanti, non solo tra le pagine dei libri ma anche nella vita, e un amico come Holden avrei proprio voluto averlo. Me lo sono sempre immaginata come quel “ragazzaccio aspro e vorace/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore” della poesia di Saba, con la testa tra le nuvole e nessuna voglia di stare a sentire l’ombra di una regola.

Mi colpiva, e mi colpisce tuttora ogni volta che riprendo in mano la mia copia consunta, soprattutto la sincerità sconcertante dei suoi pronunciamenti gnomici sul senso della vita che la penna magistrale di Salinger lascia cadere qua e là come per caso, così che, quando ci si incappa leggendo distrattamente gli sproloqui sull’ennesima scuola privata dalla quale il nostro viene immancabilmente espulso o sulle da lui supposte infinite qualità della sorellina Phoebe, non si è mai pronti, e lo sguardo, colpito dal luccichio di qualcosa d’eccezionale che però non ha scorto che con la coda dell’occhio, deve tornare indietro, come quando un riflesso del sole sulla superficie dell’acqua ci abbaglia un momento per farci scoprire una moneta che giace sul fondo. Su tutte, una frase che sicuramente non scorderò: “Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque”.

Il giovane Holden, con la sua assenza di pretese, è un piccolo capolavoro. È una riflessione sulla crescita, sul valore del compromesso, sulla scoperta di se stessi e sulla solitudine: un Bildungsroman con le carte in regola.

Come ho già detto, i casi della vita sono strani e non ci si può quasi mai raccapezzare – o almeno, io non ne sono in grado – del motivo per cui qualcosa venga ad assumere per noi un significato particolare. Non saprei dire come la storia dell’assurdo weekend a New York di un ragazzino che, nel vocabolario politically correct ora in voga, si meriterebbe, almeno, la definizione di “difficile”, sia diventata per me motivo di un’affezione particolare, che pochi altri libri hanno saputo conquistarsi.

Non è soltanto lo stile formidabile della narrazione, né l’immancabile empatia per lo sventurato protagonista (bisogna essere proprio senza cuore per non sentirsi un po’ partecipi delle disavventure del povero Holden, a cui non ne va davvero bene una), o l’invidia per la sua fantasia ancora fervida come quella di un bambino che lo spinge a sognarsi “prenditore nella segale”.

Il fascino de Il giovane Holden è un mistero che incanta. E anche il lettore più scettico, alla fine, non riesce a non chiedersi dove possano mai andare, d’inverno, le benedette anatre di Central Park.

di Francesca Ballin

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