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Pietro Benati ha paura. Diventa adulto all’ombra della torre di Pisa, e nella penombra del fratello Tommaso, ‘T’. Defilato rispetto alla vita, da cui si lascia attraversare (lui, per contro, non la attraversa), si ritrova in compagnia di altri, randagi tali e quali a lui: Andrei, musicista scanzonato dei Not Screaming (il cui insperato ritorno, garantisce, è imminente); Dora, appassionata di film horror e patita di amori difficili; e Laurent, ex-surfista e attuale gigolo. Un corollario di incontri più o meno fortuiti che orienterebbero il suo andar vagando, se non fosse per un cavillo: l’albero genealogico di Pietro affonda le radici nella tragedia. Una minaccia presente grava sulle teste dei Benati maschi: prima o poi spariscono. Fu così per nonno Furio, ‘Il Maggiore’, dato per morto durante l’invasione in Etiopia, e rimpatriato l’anno seguente con disonore, e il padre, Berto, scapestrato scommettitore la cui fugace assenza da casa e il conseguente ritorno senza un mignolo gli valsero l’appellativo di ‘Mutilo’. Pietro, ne è certo, la stessa sorte toccherà a lui: la spada di Damocle lo fenderà tra capo e collo, e, prima che se ne renda conto, sparirà.
E’ in questa dimensione di predestinazione che si dispiegano le vicende dei fratelli Benati, protagonisti di Randagi di Marco Amerighi (ed. Bollati Boringhieri). Tommaso segue la predisposizione provvidenziale del successo: promessa del calcio, genio della matematica, e animale sociale. Pietro, invece, si applica, ma non è intelligente: ricalcando un destino di sconfitta già scritto, accumula fallimenti e delusioni. E’ facile tracciare un fil rouge fra Pietro e gli amici Dora e Laurent: la paura li atrofizza, costrigendo la prima a una recidività amorosa per timore di riproporre la relazione dei genitori, e il secondo a crogiolarsi nel fallimento sportivo. Meno immediato, invece, è il punto di contatto con T, la cui gabbia non è la paura di franare quanto l’incapacità di essere, semplicemente, normale.
Dove la tendenza è a circoscrivere, Amerighi generalizza; in Randagi, afferma, siamo tutti barche nel bosco. Tuttavia, la rivelazione di Randagi non è tanto il senso di rassegnazione manifesto della sua generazione, né il tarlo esistenziale, il girovagare interiore, che non discrimina chi del randagio non ha le fattezze. Ciò che sorprende, in Randagi, è l’elemento di predestinazione coniugato con la possibilità di redenzione. Ai fratelli Benati viene concesso l’uno la grazia dell’altro: T ha un occhio di riguardo per il fratello, la cui tendenza a lasciarsi andare vorrebbe arginare; Pietro, dal canto suo, nutre per T un sincero amore fraterno. I giovani Benati si specchiano uno nell’altro, riconoscendosi. Pietro matura così un atteggiamento diverso dinnanzi alla cronaca di sconfitta annunciata: uno di possibilità.
Nel suo Randagi, Amerighi tratteggia una generazione, germogliata fra gli anni Novanta e Duemila, che avverte il peso di quella precedente. Così facendo, descrive l’atavica necessità di affrancarsi da chi è venuto prima di noi. Accettando lo smarrimento, raccogliendo in eredità i fardelli familiari, scandagliano ciò che è stato per escogitare quello che sarà, i ‘randagi’ anticipano il futuro e lo rifondano, costruendosi novelli sistemi valoriali e punti di riferimento. “Voglio fermarmi all’apice della felicità. […] Non cerco un ricordo, Pietro. L’esatto contrario”, dice T, “Voglio vedere il futuro prima che prenda forma.” Svincolandoci, ci ripensiamo soggetti, persone fautrici in grado di modellare la realtà, conferendo alla materia la forma che desideriamo.
Così, attraverso un sapiente intarsio e una scrittura ammaliante, Amerighi rifugge la tendenza a contrassegnare episodi comuni come lesioni individuali, e dice: siamo tutte e tutti randagi.