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L’acqua si riprende sempre quello che è suo, così dicevano i vecchi.
Caterina è sull’argine col corpo e col cuore. Dopo una laurea in ingegneria ottenuta a fatica e una gavetta in un ambiente ancora fortemente maschilista, ottiene il suo primo incarico importante, un progetto ostico sull’argine di Spina, piccola località padana minacciata da inondazioni, che nessun ingegnere più esperto voleva sobbarcarsi. Dentro di sé, la fragilità che l’ha accompagnata durante il trasferimento dalla Sicilia al nord Italia, attraverso i difficili anni universitari e gli abusi dei superiori, raggiunge il culmine dopo la recente rottura con Pietro, il fidanzato di una vita.
Caterina, detta Nina soltanto da Pietro, arriva ad averne visioni durante i lavori, le prime avvisaglie di una serie di esperienze liminali che la vedranno protagonista e che lasciano il lettore in dubbio su cosa, di quello che stiamo leggendo, sia verità e cosa effetto della strana atmosfera di Spina.
Torna dentro e comincia ad aprire le scatole, sbracando il cartone nei punti in cui il nastro adesivo le resiste troppo. Tira fuori tutti i libri, li ammucchia a terra accanto al letto, poi si siede e comincia, uno a uno. Con un coltello seghettato li separa in due parti. Una se la mette accanto e l’altra la rinfila nello scatolone. Parte da La stiva e l’abisso. A Pietro l’inizio, a lei la fine. Per lui la stiva, per lei l’abisso. Le sembra una giusta rappresentazione della loro vita insieme, e quasi senza accorgersene comincia a piangere, mentre i libri le passano davanti, piange con l’ora di piombo di Emily Dickinson, piange sulle Settantacinque poesie e la vita da portare in giro, piange con Franny al telefono, piange perché non c’è un Pedro Camacho nella sua vita, capace di reinventare ogni sera una storia diversa. Com’è bravo Pietro, com’è bello Pietro, mormora, un libro dopo l’altro. Fanculo Pietro.
Nonostante la sua brevità, il romanzo si muove fra i generi con eleganza, dal gotico al bildungsroman, dall’intimista al satirico. Galletta dipinge e si prende gioco del ventaglio di tipi umani che orbitano il cantiere e la provincia italiana: sovrintendenti corrotti, annoiati pensionati datisi all’ambientalismo, operai sfruttati, meridionali emigrati in cerca di fortuna. Le vicissitudini a tratti quasi kafkiane dei lavori sull’argine sono delineate da un linguaggio asciutto e ricco di termini tecnici; l’amore di Galletta per l’ingegneria è evidente nelle frequenti descrizioni che, invece di risultare tediose, riescono a donare un’aura quasi romantica a un ambito normalmente lontano dalle sensibilità più umanistiche. La metafora è (fin troppo) chiara: ogni problematica esistenziale è racchiusa, in piccolo, nel microcosmo del cantiere. Nonostante il ventaglio di personaggi e vicende secondarie, la narrazione si mantiene quasi claustrofobicamente, con pochissime eccezioni, sull’interiorità di questa giovane donna e del suo sforzo per riuscire, finalmente, a stare al mondo. La maggior parte dei temi sociali che Galletta tocca rimangono infatti sullo sfondo, meramente accennati in nome del realismo, e Nina sull’Argine non diventa mai storia di denuncia operaia o rivalsa femminista.
Lei ricordava bene solo il diagramma di stato ferro-carbonio, da una parte l’acciaio e dall’altra la ghisa. Ricordava anche una certa riprovazione generale nei confronti della ghisa, così dura ma fragile, messa poi a confronto con l’acciaio, flessibile, adattabile, lucido. In sintesi, adatto alla vita.
L’unica scelta di cui il secondo romanzo di Galletta soffre è forse la sua (insufficiente) lunghezza. Che alcuni misteri rimangano insoluti, alcuni retroscena del variegato cast di cittadini di Spina solo sottintesi, non è un problema e mi trovo sinceramente in difficoltà a capire da cosa derivi questo senso di insoddisfazione a fine lettura; semplicemente, si chiude il libro con l’impressione di aver letto una bozza ben curata, una seconda stesura. Forse anche questo è un effetto della storia che Galletta ci vuole raccontare: la mancanza di facili scorciatoie, di completa catarsi. A dispetto di questo e di qualche metafora non proprio sottile, prima fra tutte quella ribadita nel titolo, non possiamo che identificarci – noi lettori, noi millennials – con la tensione, il disequilibrio che attanaglia Caterina, quel suo essere giusto un po’ fuori asse per incastrarsi perfettamente nella sua realtà. L’opera, entrata nella cinquina per la regola secondo cui almeno uno dei finalisti dev’essere pubblicato da un piccolo-medio editore (qui minimum fax), non avrà forse molte speranze di accaparrarsi il premio, ma è una sincera storia di vulnerabilità e crescita, che indugia nella mente del lettore.