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Non so cosa pensavo, prima di vedere questo film. Forse, avevo tutto sommato più timori che aspettative: ecco un’altra, ennesima produzione a tema freak show. E invece. Nightmare Alley di Guillermo del Toro è forse il film più spiazzante che io abbia mai visto negli ultimi tempi. Sono arrivata in sala, volutamente, senza essermi documentata più dello stretto necessario sulla seconda versione cinematografica, dopo quella del 1947, del romanzo omonimo scritto da William Lindsay Gresham; e ho fatto bene, perché sono rimasta incollata allo schermo con gli occhi sbarrati.

Ambientato negli Stati Uniti degli anni ’40, il film segue le tracce del giovane e carismatico Stan Carlisle (Bradley Cooper), che tentando di fuggire da un passato disturbante trova lavoro presso il circo itinerante di proprietà di Clem Hoately (un eccezionale Willem Dafoe). Stan si avvicina alla chiaroveggente Zeena (Toni Collette) e al suo ex marito mentalista Pete (David Strathairn). Guadagnatosi la fiducia e l’affetto dei due, cerca di carpire da Pete i segreti dell’arte della lettura mentale: impara così ad usare i codici verbali segreti che gli fornisce il suo partner senza che il pubblico possa avvedersene, ma anche a sfruttare, ignorando gli ammonimenti dei due più maturi compagni, i suoi naturali poteri di osservatore per vedere che tipo di persona ha di fronte e cogliere gli indizi per una lettura che vada più a segno. Stan, tuttavia, non si accontenta di guadagnare due soldi nel misero numero del luna park: seduce e sposa così la giovane collega Molly e, con lei lealmente al suo fianco, si trasferisce a Chicago, dove il loro numero di prestigio e spiritismo diventa l’attrazione negli showroom degli alberghi di lusso. Tuttavia, sarà proprio la fame insaziabile di soldi e successo di Stan e l’incontro in definitiva fatale con un’attraente psicoanalista, Lilith Ritter (Cate Blanchett) a far sì che Stan si scontri duramente con la realtà.

Nightmare Alley gioca, in maniera per nulla scontata, sul dualismo tra verità e bugia, fatto e illusione. Il film sembra dirci che una bugia non può certo essere spacciata troppo a lungo per verità e, d’altronde, il destino a cui ineluttabilmente Stan va in corso è una lugubre dimostrazione delle possibili conseguenze di chi resta intrappolato in un groviglio di menzogne. Ma, al contempo, non c’è forse un fondo di verità in ogni bugia? Gli stessi numeri di Zeena e poi di Stan, infatti, sono certo basati sull’inganno, ma anche su un set preconfezionato di verità sulla natura umana che sembrano in fondo accomunarci tutti e che possono semplicemente essere abilmente agghindate in modo da divenire esperienze personali. C’è una premessa inquietante che funge da sottostrato della storia: ogni persona pensa che il suo background sia il suo unico e intoccabile segreto, ma ci sono anche delle costanti universali.

Come spiega Pete a Stan, “everybody’s had some trouble. Somebody they’ve hated. Shadow from the past”. E, spesso e volentieri, ci possono indovinare dettagli anche più specifici: ad esempio, per un uomo, quest’ombra è normalmente rappresentata dal padre. Il film è così una continua altalena di illusione e verità: e questo, in fondo, lo rende crudelmente simile alla vita e rende possibile una disturbante immedesimazione. Guillermo del Toro riesce a creare una pellicola che tiene col fiato sospeso, grazie anche alla solita patina di fantastico e allucinatorio. Il gusto esplicito per il macabro, reso manifesto da certi sprazzi di violenza quasi sconfinante nello splatter, e la presenza di qualche dialogo a mio parere superfluo e fastidiosamente decorativo, non riescono ad intaccare la fotografia impeccabile, la regia magistrale, la tensione continua: ma, soprattutto, un finale eccezionale e sconvolgente che varrebbe da solo la candidatura all’Oscar. Da vedere.