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Quando ho visto Drive My Car ero impreparato su ciò che avrei visto, la proiezione in un piccolo cinema iniziava alle 18.30 ed ero insieme ad altre dieci persone in tutto nella sala. Forse qualchedun* era spaventato dalla scritta sul cartellone che avvisava che la proiezione sarebbe stata in lingua originale, qualcun altr* magari intrigato. Io che non mi aspettavo nulla sono rimasto stupito dall’intensità emotiva di questo racconto visivo e dalla capacità di Hamaguchi di saper interpretare un gusto collettivo, potenzialmente impressionando un pubblico più ampio rispetto alla controparte letteraria di Haruki Murakami, mostro sacro della letteratura giapponese contemporanea, da cui il film è tratto.

Fin dalla scena iniziale cogliamo la dimensione passionale, erotica, intima che accompagnerà, non senza modificazioni, lo spettatore durante le tre brevi ore di film. Le parole sussurrate, private, sono il filo rosso che lega tutta la storia, partono dal letto in cui viene consumato l’amore della coppia di protagonisti, Yusuke e Oto Kafuku, per poi spostarsi all’abitacolo dell’auto guidata dall’uomo mentre si reca al lavoro. Capiamo infatti presto che è un attore teatrale e la voce che lo accompagna è il testo dello spettacolo che si accinge a interpretare sul palco, la voce è di Oto, sua moglie. Questo rapporto che appare intenso e sincero si sporca però con due momenti di rottura, il secondo definitivo. La carriera di Yusuke e non più il rapporto con la moglie diventa centrale per lo sviluppo della vicenda. Viene chiamato a dirigere uno spettacolo in un’altra città, spogliandosi parzialmente dei suoi panni di attore, covando una malinconia già esistente, intuita ma precedentemente soppressa. Insieme al nuovo incarico gli viene precluso l’utilizzo della sua auto, metafora della vita, che dalle sue mani si sposta in quelle di una giovane ragazza, abile autista, dal passato segnato da vicende familiari turbolente. L’intimità del dialogo postumo con la moglie è minacciato dalla energica ma silenziosa presenza della ragazza nell’abitacolo, partecipe alla quotidianità ritualizzata di Yusuke.
Lo sdoppiamento tra la vicenda legata all’attività professionale e al dopolavoro si ricongiunge con sporadici incontri con i vari attori, di cui in particolare con il protagonista dello spettacolo, occasione per il regista Hamagichi di proseguire con lo sviluppo della trama. In questi dialoghi si vengono ad aggiungere dettagli che allargano la comprensione della vicende legate al presente ma anche al passato di Yusuke e Oto, in una dinamica passionale che si rivela essere più complessa di quanto immaginato dall’uomo. Ben presto il viaggio in auto diventa totalizzante, occasione indispensabile di confronto e “elemento magico” che catapulta i personaggi nelle varie vicende in cui si trovano, mezzo non solo di trasporto ma elemento metaforico dell’incessante viaggio che si attraversa durante una vita, fatto di soste, di arresti bruschi ma anche di lunghi tratti percorsi verso luoghi ancora sconosciuti, non ancora parte della propria memoria.

Drive My Car riesce a far commuovere con una storia semplice ma toccante, fatta di parole mai dette ma immaginate, coinvolge ognuno di noi perché quanto narrato è di carattere universale, al di sopra della barriera linguistica tra individui, al di sopra di un sistema gerarchico, al di sopra di ciò che è giusto o morale fare. Hamaguchi ha creato da una possibile banalità un grande film che tocca le corde più intime della sensibilità emotiva, ripercorrendo a ritroso ma anche suggerendo sviluppi futuri la vicenda di Yusuke, della sua autista Misaki e in realtà di ogni individuo che si trova a vivere nella complessità delle relazioni umane, nelle sua declinazione amorosa o di parentela.