Cammina cammina, o pedala pedala (magari avete noleggiato la famosa bicicletta di cui si diceva l’altra volta), giungiamo al molo della Sirenetta, il molo di Langeline. Qui la famosa statua si specchia melanconica nel Mar Baltico che bagna Copenaghen, la città di cui è diventata un po’ il simbolo. La Sirenetta è famosa e sventurata non solo nella fiaba, ma anche nella realtà: numerosi atti di vandalismo (decapitazioni, imbrattamenti, la caduta in mare nel 2003 a causa di una carica esplosiva) hanno portato negli anni a sostituire l’originale del 1913 con svariate copie. La statua in bronzo dalle dimensioni modeste (che a volte deludono alcuni turisti) venne commissionata allo scultore Edvard Erksen da Carl Jacobs, proprietario del birrificio Carlsberg (ancora oggi una delle maggiori aziende danesi, quarta al mondo per produzione di birra). Mi sembra superfluo specificare che, in uno dei primi incontri online con gli studenti danesi (che, se fossimo stati in presenza a Aarhus, ci avrebbero mostrato l’università e la città), un tale ha affermato di aver battuto il proprio record di velocità in bevuta di birra: un litro in ben 7,8 secondi. In Danimarca è una vera e propria cultura quella del bere: prevede lunghe serate (che iniziano prestino, ovviamente, visto che la cena è alle 18) passate nei bar a giocare a carte, dadi, e vari giochi da tavolo, includendo spesso anche diverse ubriacature. A volte gli stereotipi hanno un fondo di verità…
Mettiamo da parte la birra e torniamo alla nostra Sirenetta (ma, nel nostro viaggio immaginario, potete anche bervi una birra più o meno immaginaria – ovviamente Carlsberg – mentre passeggiamo, se vi va).
La storia è raccontata da Hans Christian Andersen, uno degli intellettuali più famosi della Danimarca, che visse proprio qui a Copenaghen benché fosse originario di Odense. Andersen fu tra gli intellettuali che, nel XIX secolo, influenzarono e diedero nuova forma alla Danimarca, insieme ai filosofi Grundtvig e Kierkegaard e al fisico Ørsted, che scoprì l’elettromagnetismo negli anni Venti dell’Ottocento.
Le fiabe di Andersen si ispirano alla narrativa popolare e seguono trame e stili di vita già radicati nella cultura e nella società danese, portandoli alla luce e rafforzandoli: grandi e piccini le hanno lette e ci hanno riflettuto, tanto che queste storie sono diventate strato comune di storie e convenzioni. Ne Il Brutto Anatroccolo, per esempio, il protagonista, oltre a essere un alter ego di Andersen stesso, rappresenta la Danimarca, la piccola nazione che ambisce a un grande destino. Allo stesso tempo, in questo mutamento individuale possiamo leggere – neanche troppo tra le righe – la convinzione per cui è possibile emergere ed eccellere nonostante la propria classe sociale di partenza.
In questa fiaba troviamo quindi due punti fissi abbastanza radicati nella storia e nella morale danese. Da una parte l’ambizione legata a una sorta di frustrazione, dovuta in parte anche a ragioni storiche e geografiche risalenti al 1864 (ma adesso non spoileriamo troppo). Dall’altra la convinzione nella possibilità della mobilità sociale, dell’istruzione pubblica a cui tutti possono accedere per emanciparsi, della distribuzione della ricchezza e nell’egalitarismo in cui credeva Grudtvig. Merita qui sottolineare come questo pensatore unì i concetti di uguaglianza e parità sociale al liberalismo di stampo inglese (da lui introdotto in Danimarca dall’Inghilterra, dove aveva più volte soggiornato), andando così a formare la base culturale per quello che è oggi il welfare state danese, improntato alla flexicurity. “Flexicurity” è un termine ibrido che racchiude due concetti: da un lato la flexibility, ovvero un basso tasso di tutela dell’occupazione, che comporta una grande libertà dell’imprenditore di assumere e licenziare per adattarsi alle forze del mercato (non esistono infatti leggi danesi equiparabili al diritto del lavoro italiano e alle conseguenti tutele del lavoratore) e un alto tasso di mobilità dei lavoratori (il contrario esatto del nostro “posto fisso”); e dall’altro la security, che consiste in un forte impegno dello Stato per garantire sia indennità di disoccupazione (per due anni, ma in passato durava anche più a lungo) sia, soprattutto, politiche “attive” che permettano ai disoccupati di ottenere nuove competenze per rientrare nel mercato del lavoro. Con “forte impegno” intendo una spesa in politiche attive (cioè formazione) e passive (sostegno al reddito) per circa l’1,5% del PIL secondo i dati Eurostat del 2016. Nemmeno a dirlo, l’Italia investe lo 0,5% del suo PIL nello stesse politiche, la cui maggior parte sono passive.
Tornando al nostro Anatroccolo, entrambi i punti fissi (“ambizione” – “uguaglianza”) portano la Danimarca a essere uno dei Paesi “più felici” al mondo, nel senso che essa offre un’alta qualità della vita unita allo spazio per una grande soddisfazione personale. “Qual è la chiave per capire la felicità danese?” è la domanda che ha spinto numerosi studiosi – tra cui Christian Bjørnskov, dell’università di Aarhus – a interrogarsi su quale fosse il misterioso x-factor che rende i danesi un popolo felice. Chissà, magari una ricetta replicabile anche per noi studenti in sessione!
Questa “felicità” è misurabile con l’indice di Gini, inventato nel 1921 da Corrado Gini (un italiano!) per analizzare la distribuzione della ricchezza di una nazione, e quindi il grado di uguaglianza o diseguaglianza economica di un Paese. Esso mostra quanta percentuale del reddito nazionale posseggono, a loro volta, le varie percentuali di popolazione: risponde alla domanda “quanta percentuale di reddito possiede il 20%, il 50%, il 70% più povero della popolazione?”. Se il reddito è distribuito perfettamente, il 20% della popolazione possiede il 20% del reddito, il 50% della popolazione il 50%, e così via. Paesi con forti diseguaglianze, come gli Stati Uniti, presentano al contrario uno sbilanciamento, per cui poche persone posseggono la maggior parte del reddito. Nei Paesi Nordici questo indice è molto basso – infatti questi Paesi sono considerati altamente egualitari. Nota positiva per l’Italia, anche il nostro indice è relativamente basso e si assesta sullo 0,3 circa, in una scala da 0 (= perfettamente egualitario) a 1. L’indice di Gini serve quindi a misurare l’uguaglianza nella distribuzione, che è rilevante se questa è considerata l’ingrediente chiave per un’utopia sociale di benessere e felicità. Utopia sociale che sembra raggiunta dai Danesi e dagli Scandinavi in generale: la società si può considerare un’unica grande middle-class in cui tutti hanno le stesse opportunità e possibilità (certamente, con tutti gli aspetti positivi ma anche negativi che ciò comporta). Quindi non è tanto la ricchezza, bensì l’essere tanto ricchi quanto gli altri a renderci “felici”. Eppure, la faccenda non è liquidabile così in fretta: se è l’uguaglianza a rendere felici, allora il Paese più felice dovrebbe essere quello con più uguaglianza: invece la Danimarca risulta essere la nazione del popolo felice, ma sono altri (come la Svezia o anche il Giappone) a detenere il primato dell’uguaglianza. E quindi?
Facciamo un piccolo appunto, e non riduciamoci a considerare solo dati e statistiche. Deformazione professionale degli economisti è infatti ricondurre tutto a una misurazione, ma gli studiosi di economia della felicità (come Luciano Canova) spiegano che la felicità viene abitualmente associata al benessere, e quindi al denaro, venendo così monetizzata nel PIL; tuttavia sono molti di più gli indicatori che influenzano e determinano la felicità: salute, istruzione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, politica, sicurezza, ambiente e patrimonio culturale… Richard Wilkinson, studioso inglese di disuguaglianza sociale, avverte poi che il concetto di felicità è soggettivo e, se varia da persona a persona, figurarsi da cultura a cultura! Inoltre i Danesi sono ormai consci di questa loro fama di popolo “felice e pacifico”, il che innesca forse meccanismi di autoconvincimento.
Detto questo, gli economisti della felicità (sì, si chiamano davvero così) hanno notato che, raggiunto un certo livello di benessere, un suo aumento non determina un conseguente e proporzionale aumento della felicità. Ecco perché i Danesi sono un popolo più felice degli Svedesi: essi posseggono un “qualcosa in più”, una differenza che li rende più soddisfatti della loro vita rispetto agli altri. C’entrerà forse il famoso welfare state danese? In realtà, Bjørnskov non è dello stesso avviso. Il welfare state è quel concetto di Stato secondo cui la rete di istituzioni gioca un ruolo importante nella protezione e promozione dell’economia e del benessere sociale, andando idealmente a correggere le irregolarità del mercato verso un outcome più egalitario. In particolare, il modello danese (detto “universale”) si basa sull’accesso (universale, appunto) a benefici e servizi, e sul perfetto equilibrio tra “flexibility” e “security” di cui dicevamo prima. Ora provate a immaginare di pagare le tasse (ma proprio tante tasse: i Danesi possono infatti arrivare a versare fino al 72% del loro reddito – in Italia le tasse sono molto alte, ma l’aliquota maggiore non supera comunque il 43%) e immaginate che poi tutto quanto “vi torni indietro” in termini di servizi. Istruzione gratuita (università compresa; anzi, sopra i 18 anni gli studenti sono addirittura pagati fino a 6243 corone danesi, ovvero circa 800€), sanità e cure mediche, assistenza agli anziani e congedi parentali per stare con i figli piccoli, prepensionamenti (dai 63 anni), indennità di disoccupazione fino al 90% dello stipendio. Aggiungete poi un monte ore lavorativo settimanale (e annuale) inferiore alla media europea: esatto, i Paesi europei più ricchi lavorano quantitativamente di meno rispetto a Italia, Spagna, Grecia. Insomma, chi non sarebbe felice? Eppure Bjørnskov avverte che in realtà è il welfare state a essere il risultato della felicità danese, e non il contrario. E quindi? Secondo lui, la risposta è da cercare nella cultura che impregna il tessuto sociale danese.
Michael Booth, nel suo The Almost Nearly Perfect People (deliziosa e scorrevole lettura che consiglio durante il nostro volo immaginario, per ingannare il tempo), nella sezione dedicata alla Danimarca, elenca infatti, tra gli ingredienti danesi per la felicità, grande coesione sociale (testimoniata dal forte associazionismo) e poi, udite udite, tillud.
Ma magari di tillud parleremo quando saremo arrivati a Aarhus. E anche di ciò che accadde nel 1864, ve l’ho promesso. Ora cercate di non perdere il treno che parte tra poco.