Il Giappone oltre le metropoli e gli stereotipi – I

Hakone e Nikkō

tempo di lettura: 8 minuti

Di solito, quando si pensa al Giappone ci si immagina un paese super moderno e tecnologico, quasi irreale con i suoi treni puntualissimi e i robot restaurant, un paese dalle metropoli enormi e affollate che ha per capitale la città più grande del mondo per numero diabitanti.  Vengono in mente i grattacieli di Tokyo, i templi di Kyoto e le vie illuminate di Dōtonbori a Osaka. Anche io, la prima volta che sono stata in Giappone, mi immaginavo tutto questo e non vedevo l’ora di poter ammirare le insegne luminose e di perdermi tra la folla.

Era l’estate del 2016: passai un mese a Osaka per un corso di lingua e nei pomeriggi giravo per i suoi quartieri con i miei compagni di corso, mentre nei weekend visitavo le città più famose della regione del Kansai: Kyoto, Nara, Kōbe, Himeji… Finite le lezioni, trascinai la mia valigia enorme sul treno locale fino a Shin-Ōsaka e, da lì, salii sullo shinkansen per Tokyo, dove passai i miei ultimi cinque giorni giapponesi prima di tornare in Italia, con tanto di breve escursione all’ex-capitale Kamakura, . L’aria era così umida, in quei giorni di inizio agosto, che, dal finestrino del treno super veloce, quasi non riuscii a vedere il Monte Fuji, che nei cieli limpidi delle mezze stagioni si staglia invece nitido contro il cielo azzurro e accompagna i viaggiatori per una buona mezz’ora. Ricordo di esserci rimasta malissimo perché volevo, in poco più di un mese, vedere quasi tutti i punti d’interesse principali del paese, e il Monte Fuji non poteva certo mancare. Mi accontentai della foto di una nuvola sotto cui si intravedeva una piccola linea in cui, con un po’ di immaginazione, si poteva riconoscere il versante del monte. Ci rimasi male anche a Tokyo, perché le città del Kansai mi avevano entusiasmata moltissimo, con il loro calore e la loro eccentricità, mentre la capitale aveva un retrogusto distaccato e freddo, mi sembrava troppo grande, troppo ampia, affollata ma non vivace, moderna ma non interessante. A tre anni di distanza ho cambiato completamente idea e ho capito che ciò che mi mancava erano, principalmente, la compagnia e il tempo di addentrarmi nei quartieri meno conosciuti. In ogni caso, parlerò del mio ritrovato amore per Tokyo in un’altra occasione.

Tornata a casa, ero entusiasta del mio viaggio. Pensandoci ora, però, ero tornata senza aver davvero scoperto nulla di nuovo. Avevo avuto la mia buona dose di shock culturali, ma i posti che avevo visitato li conoscevo già tutti, e anche se vederli dal vivo era stato molto emozionante – non potrei mai consigliare a un turista che visita il Giappone per la prima volta di ignorare questi posti a favore di altri meno conosciuti – sentivo che la mia conoscenza di quel paese non era poi tanto più ampia rispetto a prima della mia partenza. 

Durante la mia seconda esperienza in Giappone, questa volta lunga ben nove mesi e non più in qualità di turista, ho quindi deciso di concentrarmi su altri aspetti del paese, e con grande gioia ho scoperto che (perdonatemi la frase fatta) il Giappone è anche altro: in particolare, è ricco di natura quasi incontaminata e di destinazioni tutt’altro che affollate, prive dell’inquinamento acustico e luminoso tipico delle località più grandi.

Tra le mete più conosciute per le gite fuori porta partendo da Tokyo, al primo posto si trova sicuramente Hakone, una cittadina nella prefettura di Kanagawa, a sud della capitale: è così famosa che tutti gli studenti di lingua giapponese ne imparano il nome prestissimo lungo il loro percorso di studi, perché le frasi di esempio di quasi tutti i libri di testo la nominano almeno una volta. 

Non per questo si dovrebbe sottovalutare la sua bellezza: uno dei motivi della sua fama è la posizione privilegiata per ammirare il Monte Fuji, e, benché fossi un po’ scettica riguardo a questo monte  (“Sarà anche famosissimo, ma è pur sempre un monte, perché sono tutti così fissati?”), dopo averlo avvistato per la prima volta mi sono subito innamorata della sua forma regolare, della grazia con cui appare quando meno te l’aspetti, senza altri rilievi intorno, tutto solo a dominare il panorama con quella sua aria di misticità e leggerezza, come fosse un’enorme stampa ukiyo-e senza profondità e senza tempo. Tornata a Tokyo cercavo di scovarlo all’orizzonte durante le giornate più limpide, ma ho avuto successo solo una volta. Alla magia del Monte Fuji si aggiungono un lago pittoresco e colline verdissime e punteggiate da ciliegi in fiore in primavera, e rosse, arancioni e gialle in autunno. I colori autunnali sono così accecanti e incredibilmente vividi che,anche se in questa stagione è molto facile incontrare la nebbia e, quindi, non riuscire a vedere il Fuji, in realtà vale comunque la pena farsi il viaggio da Tokyo.

Ad Hakone, tra l’altro, ho pernottato per la prima volta in un ryokan, le locande tipiche giapponesi in cui si dorme in un futon, la sera si infilano i piedi sotto il kotatsu (una sorta di tavolino-coperta riscaldato) e si fa colazione indossando lo yukata fornito ad ogni ospite. Finalmente iniziavo a percepire anche un’altra anima di questo paese, un po’ ferma nel tempo e non catapultata nel futuro a bordo di treni-proiettile. Purtroppo, il santuario di Hakone era in ristrutturazione la prima volta che l’ho visitato, ma ho avuto occasione di tornarci in autunno, quando il torii sull’acqua era appena stato riportato al suo splendore originale, e infatti la fila per farsi fotografare davanti a quel meraviglioso spettacolo arrivava fino alla strada. Per fortuna, l’attesa sotto alle distese di colori autunnali, resi ancora più vibranti dalla pioggia, è stata tutt’altro che fastidiosa.

La seconda meta più inflazionata per le gite da Tokyo è Nikkō, una cittadina tra le montagne della prefettura di Tochigi, questa volta a nord della capitale. In realtà non è vicinissima a quest’ultima, per raggiungerla si devono cambiare due treni e attraversare svariati chilometri di suggestivi campi di riso, ma è molto famosa grazie al santuario Tōshōgū, che è patrimonio UNESCO e ospita la tomba di Tokugawa Ieyasu e un’incisione delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano. 

Per visitare solo questo tempio sarebbe sufficiente una mezza giornata, ed è il motivo per cui molti turisti approfittano del Nikkō Free Pass per fare andata e ritorno in un solo giorno a un prezzo conveniente, ma noi volevamo spingerci fino alla cascata Kegon, che è considerata una delle tre cascate più belle del Giappone e si trova poco fuori del centro, quindi abbiamo deciso di fermarci una notte in ostello. Avevamo prenotato due letti in una camerata comune, ma non c’era nessun altro ospite e quindi tutta la stanza era per noi, il che è risultato anche un po’ inquietante, vista la posizione sperduta della struttura e la nebbia che era calata su Nikkō dopo il tramonto. Per fortuna, per cena eravamo capitate in un ristorantino a conduzione famigliare in cui ho mangiato uno dei ramen più buoni di sempre, il che mi aveva messa in pace con il mondo, quindi il cielo viola, la nebbia e il silenzio totale non erano che uno sfondo magico e un po’ misterioso ad una serata già positiva. Non mi è nemmeno dispiaciuto non vedere le stelle, nonostante fossero tra le cose che più mi mancavano a Tokyo.

Il giorno dopo, ci siamo dirette alla cascata, percorrendo una strada di infinite curve a gomito su un autobus quasi vuoto, ma la nebbia sembrava non voler andarsene e per qualche minuto abbiamo temuto di non riuscire a vederla, anche se dal rumore dell’acqua che cadeva sulle rocce sapevo di esserle molto vicina. Il vento, però, è venuto in nostro soccorso, e con un po’ di pazienza siamo riuscite ad ammirarla in tutto il suo splendore. La nebbia che la circondava, ora senza più nasconderla completamente, era in realtà molto suggestiva. Tornate poi verso il centro di Nikkō, abbiamo naturalmente visitato il famoso santuario, meraviglioso a livello architettonico, ma soprattutto per la sua posizione incastonata nel bosco. Abbiamo pranzato con yuba soba e poi abbiamo attraversato a piedi il centro, composto per lo più da vecchie casette, vecchi negozi e vecchie locande, siamo passate davanti al famosissimo ponte Shinkyo – che dal vivo sembra molto più artificiale che in foto, ma che viene salvato dall’acqua che vi scorre sotto, così limpida e azzurra – e, attraversato il fiume, abbiamo raggiunto una zona un po’ nascosta lungo l’argine, incastrata tra gli alberi.

Addentrandoci nel verde, ci siamo sentite parte di un mondo parallelo. Si sentiva solo lo scrosciare del fiume, anche qui incredibilmente limpido, si percepiva l’umidità della pioggia ancora pesante nell’aria e gli occhi si riempivanodi un verde così brillante che mi sono chiesta se l’intero bosco non fosse stato colorato artificialmente. Sulla sponda del fiume, allineati e sereni, una colonia di jizō (le statue del bodhisattva che, tra gli altri, proteggerebbe i viaggiatori) a trasmettere tutta la loro saggezza e pace interiore a coloro che ancora non fossero riusciti a farsi illuminare dalla pace del bosco. Può sembrare banale, in fondo non si trattava che di un bosco, ma a volte, quando si vive in una metropoli, ci si scorda che bastano poche ore e pochi chilometri per ritrovarsi a contatto con un’energia così profonda come quella della natura. Ora capivo perché il Giappone, che in città sembra così pragmatico e materialista, fosse anche famoso per la spiritualità e le leggende sugli spiriti: non mi sarei per nulla stupita, in quel contesto, di veder apparire qualche personaggio fantastico. Per fortuna, il viaggio di ritorno è stato sufficientemente lungo per metabolizzare tutta quell’energia e sostituirla con la voglia di scendere dal treno, con la voglia di tornare a Tokyo e di vivere la città in modo diverso.

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