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“Qui tutto quello che mangiamo viene recuperato da ciò che verrebbe buttato via dai supermercati. Abbiamo creato noi questo progetto, ora mangiamo gratis e non si butta nulla.”
Arrivo a Växjö, sud-est della Svezia, di sera. Nevica. Sono ospite a casa di Nadia, una couchsurfer che gentilmente mi accoglie per qualche giorno. Viene dalla Slovacchia, ma da qualche anno vive in Svezia per studiare “design per il cambiamento”. Condivide con il suo ragazzo tedesco in un micro appartamento in cui mi ospitano, pieno di piante, cassette di frutta, manifesti, poster e cuscini colorati. Mi sento subito a casa, come se avessi sempre vissuto con Nadia e Moritz. Mi offrono colazioni salate, a turno si svegliano prima per cucinare la mattina: pane fatto in casa, verdura, hummus, olive. “Tra le altre cose studiamo come facilitare dei processi di sensibilizzazione ecologica attraverso il cibo e le performance… vedrai, farete tre cene performative.” Infatti, come mi spiega, lei e gli altri studenti della facoltà di design cucineranno i pasti per i tre giorni di convegno a cui partecipo anche io.

Nadia e Moritz dormono minimo 9 ore a notte, cosa inconcepibile allo studente medio italiano. Dopo due giorni di colazione fatta in casa e 9 ore di sonno, sento la differenza.
L’università di Växjö si trova nella foresta vicino a un lago, tutto ghiacciato. I ragazzi fanno jogging tra gli alberi sotto la neve. L’università si raggiunge con un bus che va a biocarburante, creato dai rifiuti compostabili della città. Le aule sono tutte in legno, hanno finestre enormi che danno sulla foresta. In realtà ci sono più atelier che aule, i ragazzi girano senza scarpe, in calzini. Tanti giovani professori portano i loro bambini. Sono ospite del convegno “Multispecies Storytelling in Intermedial Practice”: si contesta la presunta eccezionalità della specie umana attraverso l’incontro ed il racconto di tutto ciò che non è umano.
Siamo un misto di professori universitari, ricercatori, studenti e artisti.
Kuai, biologo e performer della popolazione Quechua in Ecuador, mi racconta delle sue ricerche sulle formiche, sulla loro voce e su come si organizzano in società. Da anni registra le interazioni tra le formiche e le loro voci, e vuole tornare nella Foresta Amazzonica per stare con loro nel loro ambiente. Sebastian e Parren, dalla Svezia e dal Delaware, mi invitano a immergermi tra le creature intrappolate nella plastica del Pacific Garbage Patch. Coordinano un workshop dove invitano professori e studenti a creare dei mostri partendo da scarti di plastica. Poi, assieme, popoliamo un mondo immaginario di mostri di plastica e riflettiamo su ciò che abbiamo creato. Flora, ricercatrice a New York, segue il coreografo Luc Petton che danza con gli animali: cigni, gru e lupi. Sophie, australiana, è appena stata in Antartide e ha dormito all’aperto per sentire il rumore dei ghiacciai. Loup e il suo collettivo di ballerini spiegano cosa vuol dire essere trans e danzare per le piante.

Dopo ogni conferenza è d’uso la fika. Un rito sociale importantissimo, paragonabile all’aperitivo. La fika gli svedesi la fanno svariate volte al giorno, ed è sostanzialmente una pausa caffè, rigorosamente accompagnata da dolcetti e similia. Cosa rende socialmente rilevante la fika è la condivisione: deve sempre essere condivisa con qualcuno, siano colleghi, amici o familiari, o almeno così mi spiegano gli svedesi che incontro.
Ora siamo nella Kunsthall di Växjö. Enormi vetrate e interni bianchi e color legno. Ho ritrovato Nadia, che ha cucinato la cena per gli speaker della conferenza.
Non è una classica cena da convegno. Nessuno a servire, non ci sono piatti. Solo un tavolo dove troviamo qualcosa che sembra terra brulla con delle zone erbose e fiorite. Un giardino rovesciato sul tavolo. È tutto edibile, siamo invitati a mangiare con le mani tutti insieme. Non ci sono gerarchie, nessuno indossa vestiti eleganti. Studenti e professori associati, poeti e artisti stiamo mangiando tutti insieme con le mani. Mi ritrovo a parlare con la filosofa francese Vinciane Despret, che mi racconta quanto sia fastidioso parlare sempre inglese: quando si usa la propria lingua madre la mente è popolata da tutti gli autori, accademici, amici e familiari che ci hanno parlato da quando siamo piccoli. “Tutti loro ci parlano ancora, ma non in inglese!”
Credo sia una delle cene più buone cui abbia mai partecipato. Le materie prime, che vengono dalle campagne vicine, sono state cucinate sul momento da Nadia, la mia ospite. Capisco il senso della performance-cena: ricongiungersi col suolo e i suoi prodotti, in modo immediato, senza gerarchie e senza mediazioni.

Mentre presento la mia ricerca conosco meglio Sebastian e Parren, ci stiamo simpatici: mi invitano da loro a Lund. Studiano sostenibilità ambientale, non prendono più l’aereo per protesta. “Se mi devo muovere lo faccio in treno, arrivo con calma. Se non devi andare in America basta muoversi in treno, che inquina cento volte di meno.”
Prima di andare a Lund vado a visitare il lago di Växjö. Mi aspettavo l’acqua, ma è solo una distesa di ghiaccio e neve. Ci posso camminare sopra, mi ritrovo nel mezzo. Nevica, tutto è bianco, anche il cielo, e non sento un rumore. La neve assorbe i suoni, mi sento immersa nel cotone, un’altra dimensione senza spazio e tempo. Il bianco assorbe tutto, capisco perché la gente sia così calma qui.
Raggiungo Sebastian a casa sua, vive con due ragazzi di Varsavia che hanno formato un collettivo artistico, due ragazze sposate svedesi, una maestra delle elementari che viene dalle isole Far Oer e Farzana, un’ingegnera iraniana. Tutti qui studiano poco, lavorano poco, ma passano tantissimo tempo insieme. Il tempo scorre diverso, tutti dormono tanto, si cucina tanto e si mangia sempre assieme. La mattina dopo il mio arrivo è la mattina del brunch dell’appartamento. Tutti lavorano, ma trovano comunque il tempo da dedicare al brunch dell’appartamento. Mi accorgo dopo che tutto quello che mi avevano cucinato era vegano. Anche nei giorni precedenti, tutto completamente vegano, ma nessuno l’ha mai declamato ad alta voce: semplicemente un riflesso coerente e implicito di un’etica fondata sull’ecologia. Dopo il brunch andiamo in un bar prima di salutarci. Qualsiasi bar è pieno di gente che beve caffè e mangia dolcetti vari. La famosa fika.

Cerco di capire perché qui nessuno fumi e si beva alcol ma neanche troppo, diciamo il giusto. Nessuno dei ragazzi con cui vivo ha le occhiaie. La risposta è chiara: un paese ricco, un buon welfare state, pochi problemi politico-sociali, bassa disoccupazione, e via dicendo. Ma questa faccenda della fika, il vivere lentamente, mai stare soli, condividere il cibo, dormire tanto e studiare poco, non è una cattiva idea, in fondo. Penso alle 12 ore italiane di studio al giorno e mi pare che perdano senso. Sentire il lago innevato, pensare a cosa si mangia e condividere d’improvviso mi sembrano più importanti di ogni altra cosa.