Per trenta danari

Siamo nel 1964, è sera. Kitty Genovese, giovane avvenente, passeggia per le strade di New York. Sta tornando a casa dal lavoro. All’improvviso, un ex amante la avvicina in macchina. Scende. Si vede il bagliore rapido di un coltello. La segue. La assale più volte, all’aria aperta; alla fine l’ammazza con un colpo secco alla gola. Sebbene Kitty Genovese gridi e invochi aiuto, ferita e sanguinante, nessuno degli indaffaratissimi abitanti di New York alza un dito per soccorrerla. Ben ventisette testimoni odono le sue urla nella notte. Citati a giudizio, dichiareranno, con sinistra unanimità, di non essere intervenuti perché «la cosa non ci riguardava».

Nella psicologia sociale, gli esperti lo chiamano effetto Genovese. È l’umanità disumanizzata. È l’indifferenziata indifferenza. È il risultato che vediamo oggi a Venezia.

Mi si perdoni l’avvio truculento. Solo lo sprizzo inaspettato di un sangue giovane poteva in qualche modo competere con l’inondazione di tristi immagini dell’alluvione. Venezia è trending topic. C’è un certo senso dell’apocalisse nei nostri pensieri, un cupio dissolvi che non riesco a capire se sia buono o egoista. Guardiamo il disastro e tiriamo le somme. L’umanità accecata dal progresso che pecca di hybris e viene punita. Letteratura da manuale. Come tanti piccoli newyorkesi siamo atterriti. La nostra signorina Genovese ce l’hanno ammazzata sotto gli occhi.

Di fronte alla tragedia credo sia naturale pensare di scrivere qualcosa. Aiuta a superare l’impotenza, o a mettere la coscienza a posto. Ancora non lo so. Fatto sta che questa maledetta alluvione ci ha aperto un solco dentro. Sembra quasi che il futuro distopico di Greta ci sia franato addosso, schiacciandoci sotto il peso di responsabilità che pensavamo allegramente di delegare.

In un articolo di quattro anni fa, pubblicato su «Vice», un giornalista sosteneva, dati alla mano, che questo sarà l’ultimo secolo in cui potremo permetterci di camminare per le calli di Venezia. L’articolo si intitolava Venezia 2100. Il suo errore fu proprio questo: scrivere 2100. Se avesse scritto Venezia 2019, ci avrebbe fatto rizzare i capelli.

L’antropocene, nostra personale versione del Giorno del Giudizio, miete e fagocita le prime vittime. Ma non è solo il futuro ad angosciarci: qualcosa risale dal fondo dei canali. È un’altra data. È un altro novembre. È il 1966. L’anno dell’Acqua Granda, che ha lacerato la memoria collettiva del Veneto con l’intensità di una nuova Caporetto. Mio padre nacque nel ’66, mentre centonovantaquattro centimetri d’acqua annegavano San Marco. Lui e i suoi coetanei, scherzosamente, si chiamano la classe de l’aluvion. Ma dietro il beffardo moto di spirito ho sempre immaginato un angosciante tentativo di dissacrare la morte.

Io per fortuna non l’ho vissuta, ma l’alluvione del ’66 fa parte della mia vita. Sono veneto di radici e veneziano d’adozione, vengo su da una terra umida e l’acqua ce l’ho nell’anima. Vedendo le immagini da Pisa, dove ora vivo, ho sentito l’alluvione nel cuore.

E sono veneziani d’adozione anche i tanti, tantissimi studenti che hanno provato cosa vuol dire essere eroi e vivere a Venezia. Nella notte tra il 12 e il 13 novembre ne ho sentiti molti: dagli arrondissements di Parigi, dalle megalopoli cinesi, dalle nevi della Russia, dalle tortuose isole giapponesi, tutti hanno sentito l’argine che si rompeva. Non eravamo a Venezia, eppure avevamo i piedi bagnati. Accomunati, affratellati da un senso di lutto inafferrabile. Hanno ammazzato Kitty Genovese. Hanno ammazzato nostra madre.

Proprio come nel ’66, mentre l’acqua saliva sono scesi gli angeli. All’epoca ci furono gli angeli del fango, che liberarono Firenze dalla mota fuoriuscita dall’Arno a suon di badilate. Oggi sono angeli di nafta. Perché l’odore terribile, quello che non passa dalle immagini, è quello del mare petrolchimico che avvelena la laguna. Perché non è andata sotto soltanto Venezia, ma anche la sua decrepita industria di Marghera. Sono commosso, guardando gli angeli della nafta. Arrivano dalla terraferma, prendono i treni, si infilano gli stivali, formano chat e gruppi di solidarietà e aiutano chiunque lo chieda. I veneziani, gente dura ma buona, non ci possono credere. Gli angeli della nafta aiutano i vecchini in difficoltà, i bottegai disperati, i bibliotecari a un passo dal suicidio. E portano allegria. Allegria giovane, innocua e innocente. L’allegria della catarsi.

Anche oggi si va sotto. Un veneziano mi ha detto: anca ancuo, se a ne va ben, semo sol che rovinai. Solita ilarità di gente che sa prendere la vita come viene. Ci sarà un nuovo picco di 160 centimetri, non c’è tempo per commiserarsi. Piazza San Marco è chiusa: sinistro presagio, per come la vedo io. Fanno sorridere i politici che si inzuppano nell’acqua alla nafta di Venezia, sconvolti come i bambini che rompono il gioco e stolidi, non capiscono che può esserci un difetto di fabbrica, ma è molto più probabile che la colpa sia loro.

Ne parleremo ancora molto, di questa storica alluvione del ’19. Sarà la grande tragedia collettiva che racconteremo ai nostri figli. Sai, nipote mio, ho visto San Servolo devastata. Saranno i nostri ricordi di guerra, e forse – mi auguro di no – racconteremo questo preambolo quando ci chiederanno come ha fatto Venezia a finire in fondo al mare.

Ne parleremo ancora molto. Diremo tante parole di poca importanza, come queste qui. O meglio ancora diremo parole da osteria, contro i quatro cancheri che i xe gà magnà fora tuti i schei col Mose. Ma non è compito mio scagliare filippiche: non voglio accusare i mille Catilina che si nascondono o fan finta di nulla. I responsabili sanno benissimo il peso che si portano dentro: forse dal tribunale della Storia potranno anche sfuggire, ma non da quello del proprio animo. Uccidere Venezia per trenta danari è una cosa con la quale non si può convivere.

Mentre gli angeli della nafta spalano fango e asciugano libri, noi ci rendiamo conto che “Venezia muore” non è più soltanto un bel titolo per un libro. È realtà, è la vittoria dei futuristi, che la desideravano inghiottita dal mare del progresso. Marinetti, negli accessi allucinati della sua modernità, diceva:

Questo stesso vento africano accelererà ad un tratto, in un meriggio infernale, la sorda opera delle acque corrosive che minano la vostra città venerabile. Oh! Come balleremo, quel giorno! Oh! Come plaudiremo alle lagune, per incitarle alla distruzione! E che immenso ballo tondo danzeremo in giro all’illustre ruina! Saremo tutti pazzamente allegri, noi, gli ultimi studenti ribelli di questo mondo troppo saggio!

Re nudi di fronte agli sconvolgimenti che abbiamo generato, proveremo a strappare l’ultima parola a Marinetti. Proveremo lo stesso a combattere. Sarà una lunga guerra d’unghie, lo sappiamo. L’esito è incerto, l’animo saldo.

Come gli angeli di nafta, proveremo.

In fin dei conti, Kitty Genovese, quella sera, per poco non la salvavano. Uno dei ventisette testimoni si avvicinò alla vittima, le chiese se stesse bene. Fu l’aguzzino, che la sorreggeva, ad allontanarlo. Sarebbe bastata un po’ più di fermezza, un briciolo di volontà…

Forse, anche noi avremo un’ultima occasione.

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