“La leggenda del santo bevitore”, Joseph Roth

tempo di lettura: 3 minuti 

Da tempo avevo in programma la recensione di questo sottile (almeno credo: la mia esperienza di lettura non è stata, ahimè, tridimensionale, limitandosi allo schermo di plastica del Kindle) libretto, che ho divorato nel tempo di un viaggio in treno da Venezia a Roma. Per farlo aspettavo, però, di aver trovato una risposta alla domanda che campeggiava sul mio quaderno di appunti in corrispondenza della pagina che vi avevo dedicato. Di averla trovata non sono ancora certa, ma tentare non nuoce.

La Leggenda del Santo Bevitore è un romanzo breve (o un racconto? Disattendo ai miei doveri di studentessa di lettere e lascio queste elucubrazioni ad altri) di Joseph Roth (già ritorno sui miei passi e vi prego di non confondere questo scrittore austro-ungarico con il più noto Philip, l’autore di Pastorale Americana), pubblicato nel 1939, poco dopo la morte dell’autore.

La trama inquadra la desolante figura di Andreas, senzatetto dedito all’alcol che si arrangia vivendo alla giornata tra i bar e sotto i ponti di Parigi. All’improvviso, sembra che sia arrivato il momento del riscatto: grazie ad un ‘miracolo’, come lo stesso protagonista lo definisce, riceve da uno sconosciuto duecento franchi, con la sola clausola di restituirli, la domenica seguente, alla chiesa di Santa Teresa di Lisieux. Ma è ben più di una settimana quella che trascorre: l’inerme Andreas si lascia trascinare da eventi e persone e, dissipato il denaro, ad ogni occasione di recuperarlo lo getta di nuovo ai rovi, senza riuscire a riconsegnarlo a Santa Teresa come aveva promesso.

Veniamo ora al difficile quesito: «La colpa di tanta inettitudine», mi sono a lungo arrovellata, «è di Andreas, o soltanto del suo vizio?».

Mi sono risposta, per ora, che dipende dai punti di vista. Quello dell’autore mi è difficile interpretarlo: mi sembra che il ritratto del ‘santo’ non sia affatto tratteggiato da una prospettiva moraleggiante, ma anzi che Roth si limiti a descrivere una realtà, a raccontare una storia. Io, invece, non riesco a scusare del tutto il protagonista; una parte di responsabilità, credo, deve rimanere sua. Qualcun altro potrebbe piuttosto assolverlo su tutta la linea; e così via. “La bellezza sta negli occhi di chi guarda” e la verità letteraria soltanto nei pensieri di chi legge.

L’esercizio filosofico (si può dire?) di mettersi di fronte anche solo a questo interrogativo vale già una lettura. Ed è utile, ciò che più conta, non tanto all’esegesi testuale, quanto piuttosto ad una personale filologia interna: se si impara con l’esperienza, anche leggere è un modo di esperire, e ci può aiutare a capire cosa pensiamo, da che prospettiva vediamo un fatto e quindi poi tutti i fatti, la vita.

È una lettura benefica soprattutto a chi non ha ancora costruito tutto il proprio futuro: l’impotenza del protagonista di fronte all’esistenza, perso com’è in un mondo che è ‘selva oscura’, la sua rassegnazione nel lasciarsi scivolare tra le mani ogni opportunità, può essere lo spunto per una aristotelica esperienza di profonda angoscia e poi, auspicabilmente, catarsi; un valido antidoto contro la paura del futuro, dell’insuccesso, dell’inadeguatezza.

Il consiglio dello chef: Per elevare al livello metafisico l’esperienza di inquietudine catartica di cui sopra, abbinare alla prossimità del vostro compleanno (soprattutto se vi accingete a raggiungere un traguardo importante: eccezionale l’accostamento con la scadenza dei 30 anni), all’inoperosità vuota dei pomeriggi estivi, ai pranzi di famiglia per le ricorrenze festive.

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