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Come l’anno scorso, torna l’appuntamento in cui vi presentiamo gli otto candidati alla categoria Miglior Film dei Premi Oscar, tramite altrettante recensioni. La prima ci porta a Colonia Roma, Città del Messico, 1970, dove la telecamera di Alfonso Cuarón segue con uno sguardo tenero la vita della domestica Cleo. Il film, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, è già considerato un classico.
La Trama: 4/5
Cleo lavora come domestica e tata nella casa dei benestanti Alfonso e Sofia, a Città del Messico: tra il 1970 ed il 1971, Alfonso lascia moglie e figli per una donna più giovane, Cleo resta incinta ed è per questo abbandonata dal fidanzato, perde la bambina che rivela alla fine di non aver mai desiderato. Dopo tante difficoltà, la famiglia sembra ritrovare il proprio equilibrio.
È già stato sottolineato ampiamente dalla critica come Roma sia in grado di evocare un’atmosfera intima e familiare con i lenti e rilassati tempi della narrazione. La storia, quella dei grandi eventi, dei disordini di piazza nel Messico degli anni ’70, delle formazioni paramilitari che sparano sugli studenti, resta sullo sfondo, guardata da dietro la finestra come in una scena del film: irrompe a tratti in primo piano (il ragazzo assassinato di fronte agli occhi di Cleo nel negozio dove sta scegliendo la culla), ma non è il fulcro del racconto, che invece si sofferma sui piccoli gesti di tutti i giorni (fare il bucato, cucinare, andare a prendere i bambini a scuola) e sull’affetto che lega le famiglie.
Che sia, come dice Žižek (Internazionale 8-14/02/19), una velata condanna alla ‘trappola’ che opprime la povera mixteca Cleo, ipocritamente trattata da pari da questi ‘viziati borghesi’ che pur provando per lei sincero affetto non sono neanche sfiorati dal pensiero che il suo destino non sia quello di stare al loro servizio? Che ci sia un intento di denuncia nel giustapporre le storie di due abbandoni, quello di Sofia e della sua domestica, l’una che si può abbandonare al proprio dolore e l’altra costretta a metterlo da parte per curare quello della padrona?
Ai posteri l’ardua sentenza. Da profani ci limitiamo a segnalare una visione nel complesso piacevole, tanto realistica e vicina ai personaggi che sembra quasi di essersi intrufolati in casa loro e di spiarli. Il nostro 4/5 perché sì, è bella e coraggiosa la scelta di raccontare un’epopea della vita quotidiana, ma il film procede con un ritmo a volte troppo lento: tra le altre, un’inquadratura iniziale di quattro minuti sul lavaggio del pavimento è davvero un po’ troppo.
La regia: 5/5
C’è poco da commentare: la fotografia, diretta dallo stesso Alfonso Cuarón, è splendida. Anche se suona pretenzioso tocca dirlo: il bianco e nero qui è prezioso e rende davvero più che il colore. La telecamera indugia sui paesaggi, sulla luce (che spesso spadroneggia la scena, come in quella, spettacolare, dell’abbraccio sulla spiaggia), gioca con i primi piani ed i campi lunghi, regalando allo spettatore uno sguardo raffinato ed esteticamente ineccepibile.
Il cast: 5/5
Anche qui c’è davvero poco da dire. Yalitza Aparicio regala un’interpretazione magistrale del carattere dolce e dimesso di Cleo, i cui sguardi sereni e i lunghi silenzi appaiono verissimi e quasi tangibili nelle numerose inquadrature ravvicinate. Anche Marina de Tavira (Sofia) è abile nel rappresentare la resistenza e la forza che riemergono dopo il crollo dell’abbandono.
Conclusione
Bastano un paio di righe per riassumere più di due ore di film: a leggerla la trama sembra ben poco appetibile e viene da domandarsi perché sottoporsi a 135 minuti di una tortura del genere, perlopiù in bianco e nero, e nemmeno doppiata in italiano (a parte, naturalmente, per avere un tema di discussione agli apericena radical-chic).
Confesso di aver peccato di pregiudizio e di aver affrontato Roma con questo spirito. Per riscattarmi sarò onesta in questa sede: no, non sono stata smentita da una visione spettacolare che mi ha tenuto incollata allo schermo. Ma è forse proprio questa la bellezza del film: non prova a sconvolgere di commozione, e appunto per questo riesce alla fine a strappare un sorriso.
Dopo anni di traduzioni strampalate dal greco o dal latino, ho imparato una regola aurea: non sovra-interpretare quello che l’autore ci vuol dire. Mi sento di applicarla anche qui: non me ne voglia il già citato Žižek, ma non mi pare di aver assistito alla messa in scena del Bildungsroman di una coscienza di classe. Ma non sono neanche d’accordo con chi l’ha affossato chiamandolo “la nuova Corazzata Potëmkin” (altra regola aurea: in medio stat virtus).
Piuttosto, Roma mi è sembrata una concessione al piacere di raccontare, di far gustare allo spettatore la storia di una famiglia infelice, che come ogni famiglia infelice, “lo è a suo modo”, e per questo è vera e capace di parlarci con un linguaggio che comprendiamo tutti (così evitiamo anche di fare arrabbiare il povero regista – che se l’è presa con Netflix dopo che i sottotitoli sono stati inseriti in castigliano oscurando le varianti messicane).