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Come sarebbe un mondo senza pubblicità? In un sondaggio condotto nel 2016 negli Stati Uniti sulla percezione che i clienti hanno dei vari settori dell’economia americana, il settore della pubblicità figura tra quelli con la reputazione peggiore – insieme, tra l’altro, all’industria del petrolio, all’industria farmaceutica e al governo federale. Il dato non sembra sorprendente: questa percezione negativa è associata a una serie di accuse che negli anni sono state portate avanti – a ragione o a torto, più o meno accuratamente – ai danni dell’industria pubblicitaria. L’accusa più grave è quella di generare bisogni e desideri fittizi allo scopo di alimentare il consumo, con l’effetto collaterale di influenzare negativamente la psicologia del suo pubblico.
Ammettendo che la percezione comune non sia del tutto falsa, esiste un danno sociale legato alla pubblicità. Tuttavia, indubbiamente, esiste anche un beneficio che deriva dalla funzione che la pubblicità svolge all’interno delle economie di mercato – si potrebbe sostenere in effetti che eliminare la pubblicità limiterebbe la competizione al punto da decretare la fine del libero mercato. Quel che dovremmo chiederci è quindi se esiste un beneficio netto in quest’industria dalla cattiva reputazione, se, insomma, i benefici che produce superino i danni che provoca.
La risposta non esiste – è proprio questo che rende la domanda interessante – o piuttosto non può trovarsi senza prima aver elaborato una visione di fondo sulla natura umana e su cosa, socialmente, sia bene o male. Esiste, invece, un’interessante risposta empirica al tentativo di immaginare un mondo privo di pubblicità: questa risposta è Cuba. A Cuba, in effetti, non esiste – o quasi – la pubblicità: le trasmissioni televisive scorrono senza interruzioni, le strade sono prive di cartelloni, le pagine dei giornali non mostrano altro che il loro contenuto. Le cose stanno cambiando, in parte, ma l’industria pubblicitaria vive e ha vissuto a partire dagli anni sessanta in uno stato di quasi-illegalità. Quasi-illegalità perché non esiste un veto specifico sulla pubblicità: il riferimento legislativo in base al quale viene considerate illegale è l’articolo 53 della costituzione, che afferma che la libertà di stampa ed espressione – e dunque l’uso dei media – è protetta “conformemente ai fini della società socialista”. Questo significa che i media, di proprietà dello Stato, non possono essere usati per promuovere il capitalismo, e per estensione che non possono essere usati per la pubblicità, che è un’attività capitalista.
Affrontando la questione da un altro punto di vista si potrebbe dire che a Cuba non esiste pubblicità perché la pubblicità non serve: l’economia cubana sta ora cambiando, ma nei cinquant’anni che hanno seguito la rivoluzione lo Stato è rimasto il principale fornitore di beni e servizi. Ancora oggi alle famiglie viene assegnata una tessera, la libreta de abastecimiento, che stabilisce le razioni di cibo e altri beni primari che possono essere acquistati presso centri di distribuzione gestiti dallo Stato. Nonostante esista, parallelamente a questo sistema, la possibilità di comprare sul mercato libero o sul mercato nero, lo Stato rimane la fonte di sostentamento per la maggioranza dei cubani: in pratica non esiste scelta, e di conseguenza non è necessaria una pubblicità che informi tale scelta.
Così come l’insoddisfazione manifestata dai consumatori nella loro valutazione negativa dell’industria pubblicitaria può essere vista come sintomo di un’insoddisfazione verso i lati più patologici del capitalismo, il mondo privo di pubblicità di Cuba è a sua volta carico di problemi economici e sociali. Tra i due estremi, nessuno dei due sembra particolarmente virtuoso: meglio troppo consumo o troppo poco? Forse molti risponderebbero che, nel dubbio, è meglio troppo, forse la scelta è un problema di una semplice preferenza personale. Penso che anche questa domanda possa rimanere in sospeso e che possa essere la base di una riflessione, che andrebbe fatta anche solo per gioco, su quanto, in che modo, da quando e perché siamo consumatori.
di Serena Guida