NO MAN IS AN ISLAND – Intrecciando margherite (II)

Si chiamava L., era anche lei pressoché nostra coetanea, e io e G. all’inizio le stavamo alla larga.
Aveva spesso attacchi strani, durante i quali rideva e piangeva insieme, sembrava posseduta, si contorceva.

Il resto del tempo parlava poco, era piuttosto tranquilla e malinconica; a lungo fissava il paesaggio fuori dalla finestra (solo in seguito capimmo che non guardava il paesaggio, ma la finestra stessa, e con pensieri tutt’altro che allegri).
“Come stanno i tuoi genitori?” mi domandò un giorno a bruciapelo. “Spero bene, non ne ho avuto notizie di recente” risposi, un po’ inquieta e incerta. “Nemmeno io. Ti vogliono bene?” “Io…credo di sì. Sì, mi vogliono bene, è ciò che fanno i genitori”. Improvvisamente si incupì, e con un filo di voce disse: “Già, anche i miei mi vogliono bene. Ma io non me lo merito.”. Una specie di bagliore attraversò il suo sguardo, saltò in piedi e iniziò a sbraitare che aveva disonorato la sua famiglia, che non era degna di loro, che non sarebbe mai potuta essere una brava figlia o una sposa rispettabile.

Iniziò a strapparsi i capelli in preda al furore. Io mi scansai spaventata, e sopraggiunsero infermieri che la calmarono e la portarono via.
Tuttavia avevamo instaurato un legame in quei pochi attimi prima del suo attacco, legame che si consolidò col passare del tempo.

E così diventammo un trio, io G. e L., e cercavamo di condividere le nostre paure, i nostri incubi ma anche i nostri sogni, i desideri.
Un giorno ero da sola con L. nel parco, raccoglievamo margherite, lei mi guardò con aria seria e mi spiegò la sua ossessione per le finestre.

“Sai, se ti butti dalla finestra ti liberi davvero.” mi disse a un tratto con aria seria. “Esci dalla prigione più che in ogni altro modo. Esci, voli al di fuori, oltrepassi il muro, è un atto simbolico. Per questo tentavo di raggiungere le finestre il giorno in cui mi hanno portato qui. Se muori dentro sei in trappola per sempre, ma la finestra ti libera, a qualsiasi altezza e di qualsiasi dimensione sia, se voli dalla finestra sei libero”.

Mi sentii così finalmente pronta a raccontare a qualcuno della notte del canale, qualcuno che sapevo che non ne avrebbe ricavato alcuna diagnosi.
“Lo volevi fare solo per scampare ai creditori?” mi chiese. “Più o meno, ma il peggiore creditore di cui volevo liberarmi era la vita.” “E allora perché non sei andata fino in fondo?”. Scossi la testa e non risposi, il perché neppure io lo so davvero, e continuammo a intrecciare margherite in silenzio.

*****

“Aiuto! Si menano! Aiuto! La uccide!”
Ci fu un grande trambusto quella notte a San Clemente.
Infermieri, medici, pazienti curiose correvano ovunque per i corridoi, per capire da dove venissero le grida, che cosa stesse succedendo.
Io e G. uscimmo di corsa dalla nostra stanza, incontrammo in corridoio L. altrettanto disorientata, e seguimmo alcune infermiere, benché ci esortassero al contrario a rimanere nelle nostre stanze e a mantenere l’ordine.
Quando arrivammo scorgemmo a malapena F., una donna di circa dieci anni più vecchia di noi, che si accaniva sul corpo di un’altra ammalata, stesa per terra circondata di sangue, che cercava di difendersi da quella furia che le urlava i peggiori insulti.
“Dice che è andata con suo marito, la pazza” ci sussurrò una ragazza “ma la poveretta neanche lo conosce.”
Furono necessari due medici robusti per separarle, subito le infermiere si preoccuparono di medicare le ferite alla vittima dell’aggressione, mentre ancora in lontananza F. che veniva trascinata via di peso gridava che la voleva morta e che suo marito non doveva toccarlo.
Era solo questione di tempo prima che succedesse qualcosa del genere. Da quando era arrivata, infatti, F., in preda ad una folle gelosia di suo marito, insultava qualunque paziente di aspetto più avvenente del suo.
Amava suo marito, stando a quanto diceva, o perlomeno l’aveva tanto amato; ma poi lui l’aveva tradita, più volte, l’aveva maltrattata, forse anche picchiata. Le aveva perfino attaccato qualche strana malattia secondo lei, e quando se ne era accorta l’aveva rinchiusa lì per poter portare a casa tutte le amanti che voleva.
Altri giorni però piangeva inconsolabile, anche molte ore di fila, dicendo che le mancava tanto suo marito e che era certa che anche lui soffriva e che sarebbe andato a prenderla molto presto.

Una volta venne a farle visita, lei già aveva preparato i bagagli pronta per tornare a casa, ma non erano affatto quelli i piani del marito: sentimmo solo lei che gli urlava quanto lo amava e che desiderava tornare a casa da lui più di qualsiasi cosa al mondo, mentre lui non rispondeva.

F. non parlò per tutto il resto della giornata, e lo stesso fece dopo la visita di sua madre. Poi tornò alla sua routine, tra insulti e dichiarazioni d’amore eterno.

Molte altre donne entrarono nella nostra vita e rapidamente ne uscirono.
Ci fu per esempio Fe., che arrivò in un giorno piovoso scortata da quattro o cinque poliziotti armati fino ai denti.
Era chiaro che era una criminale, aveva un ghigno stampato in faccia. Non ci avvicinammo mai, ci faceva molta paura e non avevamo idea di cosa avesse fatto. Ogni tanto si divertiva a spaventare le ragazze più giovani di notte e a fare dispetti, e noi non volevamo in alcun modo attirare la sua attenzione e inimicarcela.
Tuttavia la sua presenza stimolava la nostra fantasia, e così ogni giorno per circa dieci minuti cercavamo di indovinare quale crimine efferato avesse commesso: una volta aveva squartato gli animali della fattoria di famiglia, altre volte aveva trucidato i suoi parenti, a volte addirittura mangiava bambini.
Non scoprimmo mai la verità, ma Fe. visse infinite vite e avventure nelle nostre fervide immaginazioni.
Molto interessanti per le nostre storie erano anche Le. e P.
Avevano entrambe 41 anni, ed erano diventate molto amiche, a tal punto che era diventato pressoché impossibile incontrarle separatamente.
Entrambe erano ossessionate dalla religione, pregavano continuamente e si recavano in chiesa con una frequenza veramente esagerata.
La prima era sempre triste, non rideva mai, non alzava mai lo sguardo da terra, quando qualcuno le rivolgeva la parola il suo sguardo era vacuo e smarrito, come se non capisse o non volesse capire. Si diceva che il suo bambino le era morto nella pancia, le era stato raschiato via mentre lei era cosciente e aveva potuto vedere il sangue e il corpicino senza vita, e così era impazzita qualche settimana dopo.
P. invece delirava spesso, gridava che era morta ma sia Dio sia Lucifero avevano rifiutato la sua anima e quindi l’avevano resuscitata ma era destinata ad essere dannata tra i vivi, e così dedicava tutta la sua esistenza al culto affinché Cristo intercedesse per lei.
Insieme però sembravano quasi serene, ed erano in profonda sintonia. Ogni tanto Le. chiedeva a P. se quando era morta aveva visto il suo bambino.

Molte altre storie non le seppi e non le saprò mai.
Circa un anno dopo il mio arrivo a San Clemente i medici, soddisfatti per le mie condizioni, mi dimisero.
L’addio con G. e L. fu struggente, ed in realtà abbandonare l’istituto fu per me piuttosto doloroso, benché non si potesse considerare certo un luogo di villeggiatura. Ma quel ricovero mi servì non tanto a curare il mio vizio del gioco, che rimase, né il mio pensiero di sottrarmi alla vita, ma la mia infelicità ne ebbe giovamento, perché imparai che non ero la sola a soffrire, e che anzi molte persone soffrivano molto più di me, e così, avendo compreso che anche nel dolore della vita esistono dei raggi di luce, iniziai a concentrare le mie forze solo in quelli.
E valorizzando l’immaginazione che avevo scoperto di avere grazie a G., iniziai a scrivere racconti, solo per me.

di Renata Gallina

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