23. In the beginning, Woman was the sun

Nel settembre 1911 una nuova rivista letteraria fa la sua comparsa in Giappone. Si chiama Seitō, parola scritta con i kanji per “blu” e uno meno usuale per “calza”. In quel momento, pochi immaginano che, l’anno dopo, a proposito del gruppo di donne legato alla rivista si dirà: Di questi tempi ci sono delle donne veramente terribili al mondo, intenzionate a provocare tumulti. Cosa mai sta accadendo, se le donne, che dovrebbero essere modeste, iniziano a imitare gli uomini, visitando lo Yoshiwara e bevendo sake? È una disgrazia per le donne di tutto il Giappone! Appunto, cosa mai sta accadendo?

In realtà, quel gruppo di donne aveva messo ben in chiaro fin da subito quali fossero le sue intenzioni. Sì, perché il rimando alle calze blu era estremamente specifico, sebbene comprensibile solo a pochi. In particolare, si faceva riferimento alla cosiddetta Blue Stocking Society, attiva durante gli anni ’50 del Settecento in Inghilterra. Si trattava di un circolo femminile delle classi alte che voleva dimostrare come anche le donne fossero in grado di intrattenere una conversazione intelligente, tanto che alle serate organizzate da queste patronesses erano banditi i giochi di carte tanto di moda in quel periodo. Le signore, infatti, tra cui Elizabeth Vesey e le intellettuali Elizabeth Montagu, Hannah More, Fanny Burney invitavano a partecipare alle loro serate intellettuali come Sir Joshua Reynolds, Samuel Johnson, Horace Walpole, David Garrick. Il soprannome del circolo, che non era una Society ufficiale, era dovuto a un episodio legato alla povertà di Benjamin Stillingfleet (1702-1771). Questi, nonostante fosse laureato al Trinity College di Dublino, fosse un botanico, un traduttore e in passato fosse stato anche il precettore di William Windham, si era trovato a dover declinare un invito di Mrs. Vesey perché non possedeva delle calze di seta nera adatte all’occasione formale. Mrs. Vesey, invece, gli disse che poteva benissimo presentarsi con delle calze di lana blu (elemento di abbigliamento informale piuttosto comune all’epoca). Così, le calze blu di Stillingfleet erano diventate il soprannome (connotato forse un po’ meno spregiativamente dell’equivalente francese bas bleu) per le donne di dichiarati e praticati interessi intellettuali. Il gruppo inglese ebbe vita breve per rivalità interne (in particolare, tra Mrs. Vesey ed Elizabeth Montagu) e bisogna sottolineare che aveva obiettivi meno ampi e radicali di quelli del gruppo giapponese. Anche il fatto che le Bluestockings originali si fossero sì fatte riconoscere come intellettuali donne, ma propugnassero ideali conservatori e una morale tradizionale – basti pensare al Village Politics e ai Cheap Repository Tracts di Hannah More contro il repubblicano Rights of Man di Thomas Paine – rivela come il gruppo fosse di orizzonti più limitati rispetto a quello giapponese.

Seitōsha¹, infatti, si propone fin da subito come una Society un po’ più pragmatica della propria eponima. Innanzitutto, questo gruppo di intellettuali non si limita a serate per pochi intimi, ma sfrutta la stampa e un’alfabetizzazione più diffusa in Giappone anche tra le donne per pubblicare una rivista vera e propria. Le autrici dei contenuti, inizialmente solo delle classi alte del Giappone dell’epoca, arrivarono a essere variegate al punto che Itō Noe, per esempio, che proveniva da un villaggio di pescatori del Kyushu, sarebbe diventata redattrice della rivista.

La rivista è comunque una pubblicazione di intellettuali: vi si discutono i lavori di Ibsen e di Sudermann e vi si trovano non solo traduzioni di opere di Chekov, Poe, Guy de Maupassant, del sessuologo Havelock Ellis o del sociologo Lester Ward, ma anche ogni forma di scrittura del Giappone dell’inizio del secolo. Poesia sperimentale e tradizionale, saggi “impressionistici” e lettere, opere teatrali, racconti – le autrici di Seitō esplorarono l’intero panorama letterario, giapponese e straniero, come dimostrano i cinquantadue numeri della rivista (pubblicati tra il 1911 e il 1916).

Una particolarità, però, rese il periodico (e coloro che vi contribuivano) noto e controverso. Come era in voga all’epoca, la fiction pubblicata su Seitō seguiva spesso lo stile del watakushi shōsetsu o shi-shōsetsu (romanzo confessione), uno stile derivato dal Naturalismo per cui il narratore scandagliava i momenti più intimi della propria vita, spesso in coincidenza o chiaro rimando rispetto a quelli della vita dell’autore stesso. Per questa ragione, molto spesso quanto pubblicato su Seitō veniva letto come un inequivocabile riferimento di tipo autobiografico, creando uno scandalo dopo l’altro e facendo sembrare Seitō nient’altro che la versione per iscritto delle vite (comunque avventurose) delle appartenenti a Seitōsha.

Questo strumento, che si rivelò appunto un’arma a doppio taglio, fu tuttavia ciò che rese la rivista un vero spazio di dibattito letterario pubblico. Con i propri saggi, le autrici non solo ribattevano ai critici e ai censori, ma anche alle loro stesse colleghe, discutevano e commentavano opere straniere e i commenti delle colleghe su queste. Nelle altre produzioni che apparivano nella rivista – saggi, racconti, lettere – venivano affrontati anche temi scottanti e attuali nel Giappone dell’epoca, che esulavano da un ambito puramente letterario.

Ci sono, infatti, racconti che parlano di tradimento (come La lettera, di Araki Ikuko), in un momento in cui il tradimento femminile veniva punito con il carcere; un dibattito sul tema dell’aborto partito dalla censura statale di Al mio amante, da una donna in prigione, di Harada (Yasuda da nubile) Satsuki e dai testi in risposta a questo di Yamada Waka, Itō Noe e Hiratsuka Raichō; numerosi testi che trattano l’aspetto limitante del matrimonio (in particolare, di quello combinato) e del ruolo di madre nel Giappone dell’epoca; Alle donne del mondo, della socialista Fuduka Hideko, che valse la censura di un intero numero perché introduceva anche il tema della classe sociale, oltre al genere, come ostacolo alla realizzazione personale di una donna; i testi di Iwano Kiyoko (anch’ella socialista) Sull’indipendenza intellettuale ed economica o sul fatto che Uomini e donne sono eguali in quanto membri della razza umana.

Nonostante testi illuminati come alcuni di quelli citati, si deve tuttavia riconoscere a Seitō una mancanza in termini sia di problemi di classe, dato che molte autrici non reputavano le “classi inferiori” degne di considerazione o semplicemente non si ponevano questo dilemma, sia di suffragio, poiché non propugnarono apertamente il diritto al voto o la parità di opportunità rispetto agli uomini (tranne che in casi isolati), né discussero quanto avveniva in Inghilterra negli stessi anni (nonostante le notizie arrivassero in Giappone). Per molte di loro, Raichō prima di tutte, si trattava di un viaggio di scoperta interiore e liberazione personale. In principio, la Donna era davvero il Sole, scrive quest’ultima nel suo manifesto per Seitō. Ogni donna ha un Sole nascosto da recuperare dentro di sé diventando altrettanto potente e luminosa, rivendicando la propria autenticità e il rispetto di sé. Come anche per Itō Noe, Katō Midori, Iwano Kiyoko, si trattava di riscoprire se stesse attraverso un duro lavoro di messa in discussione e meditazione personale, alla ricerca di una vita interiore da cui sarebbe sorto spontaneamente un codice etico. Ma Raichō non propone soluzioni né quando si tratta di un’educazione femminile nettamente inferiore a quella maschile, né di materiale mancanza di tempo per pensare di coloro che, oltre a lavorare per ore e ore nei campi o in fabbrica, devono anche occuparsi della casa e dei figli. Altre autrici, come Yamada Waka, ritengono addirittura che le classi basse appartengano a una dimensione diversa: le persone delle classi inferiori rimangono nelle loro miserabili condizioni perché seguono i loro istinti rozzi e irrazionali, scrive Yamada in proposito del dibattito sull’aborto, nonostante in passato fosse stata lei stessa venduta come prostituta e sapesse cosa comportavano le gravidanze portate avanti nella miseria.

La rivista, però, ebbe un discreto successo: nel suo periodo d’oro, Seitō vendeva circa 3000 copie al mese e, se consideriamo che spesso una rivista veniva letta da più persone, aveva probabilmente molti più lettori. Numeri considerevoli, soprattutto tenendo conto che, per gli insegnanti, essere abbonati comportava il rischio di perdere il posto, ed essere associate a un periodico sovversivo e più volte censurato non era cosa appropriata neanche per le giovani della media borghesia e delle classi alte.

Questa fortuna, per quanto breve, si può ricondurre a due fattori principali. Innanzitutto, il fatto che, trattandosi di una rivista letteraria, fosse accessibile a tutte quelle donne che avevano avuto la possibilità di studiare o che volessero ampliare le limitate prospettive offerte dalle scuole femminili giapponesi dell’epoca. Inoltre, la natura letteraria e il fatto che molto del materiale fosse scritto in prima persona permetteva anche a chi non aveva proseguito gli studi di immedesimarsi nelle storie e coglierne qualche spunto di riflessione. La narrazione in prima persona, infatti, faceva sembrare i racconti e i pensieri delle confidenze private, e i toni apertamente indignati e furenti con cui le autrici condannavano il sistema familiare, le scuole, le leggi, il luogo di lavoro come lesivi della libertà personale e delle ambizioni femminili trovavano il supporto di chi condivideva queste opinioni e ammirava il coraggio di Seitō nel propugnarle.

In secondo luogo, la redazione di Seitō era interamente femminile. Per questo, l’idea di un rapporto personale e da confidenti con amiche coraggiose spinse moltissime lettrici, abbonate e non, a chiedere consiglio e aiuto, sia per missiva, sia presentandosi di persona alla sede di fortuna della rivista. Inoltre, questa percezione di vicinanza tra autrici e pubblico rese più facile, in certi casi, il passaggio da lettrici ad autrici. La redazione permetteva anche, nel caso in cui un’abbonata non fosse in grado di pagare la sottoscrizione, di inviare, a titolo di pagamento, un manoscritto di almeno dieci pagine. Nonostante le teorie eterogenee (alcune collaboratrici si interessavano anche di eugenetica) e la cecità preponderante ai problemi di classe, le bluestockings giapponesi erano riuscite a lanciare un potente messaggio di speranza: ogni donna può essere madre della propria stessa rinascita. È infatti in ciascuna che risiede la possibilità di recuperare il proprio Sole nascosto, e non nell’Occidente, o nella forza dello Stato, o nelle leggi o nel cambiamento politico.

¹La traduzione letterale di Blue Stocking Society

 

Materiale tratto da Encyclopædia Britannica online (www.britannica.com) e da Bardsley, J., The Bluestockings of Japan – New Woman Essays and Fiction from Seitō, 1911-1916, Michigan Monograph Series in Japanese Studies, University of Michigan Press, 2007

Un pensiero su “23. In the beginning, Woman was the sun

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.