Cronache fiamminghe #2: Il sole nero e la birra bionda

 “Le Fiandre mi tolgono il sonno. Quando Dio nostro signore creò le Fiandre, le illuminò con un sole nero. Un sole eretico. Un sole che non riscalda, che non asciuga la pioggia che ti bagna le ossa per sempre. E’ una terra estranea. Le Fiandre sono l’inferno.”

Così Diego Alatriste, il personaggio letterario creato da Arturo Pèrez-Reverte, descrive il mio posto preferito e piccolo paradiso personale. Mentre cammino per il centro di Gent in un sereno pomeriggio di fine aprile, penso alle sue parole e mi è difficile non capire cosa intendesse per “sole nero”: nonostante la spendida giornata e il cielo miracolosamente privo di nuvole, sono costretta a indossare ancora la giacca invernale. Per me, abituata al caldo aprile italiano, non riuscire a separarmi dal giubbotto imbottito è un po’ traumatico. Lo scenario che mi si presenta davanti agli occhi, però, deve essere profondamente diverso da quello detestato dagli occhi di carta e inchiostro del capitano spagnolo: lungo le rive del fiume Lys, infatti, siedono in un’atmosfera di spensieratezza e allegria un numero indefinibile di studenti, raccolti in piccoli gruppi rigorosamente equipaggiati della ricetta belga per la felicità – una cassa di birra e una discreta quantità di cibo ipercalorico.
La scarsa affidabilità del loro sole non è una condanna: un ritaglio di azzurro nel cielo, che in molti altri Paesi sarebbe una quotidiana banalità, viene accolto come un pretesto per lasciare a casa il grigiore delle frustrazioni, degli obblighi e dell’ansia pre-esami; Korenlei e Graslei (letteralmente “riva del grano” e “riva delle erbe”, ovvero le sponde del fiume che attraversa il centro storico), così come ognuno dei tantissimi parchi, laghi e spazi verdi della città, si riempiono di ragazzi in maniche corte – la percezione della temperatura degli autoctoni è qualcosa che ancora mi sconvolge.

Normale pomeriggio di sole al lago di Blaarmeersen

Gent è una città incredibilmente viva. Forse perché l’enorme numero di studenti (dieci diverse università in una città di trecentomila abitanti sono una quantità piuttosto impressionante), forse per lo stile di vita belga, che ha fatto della birra quasi un oggetto di culto. Entrare in un pub in Belgio è un’esperienza mistica: un turista che provasse a entrare in un normalissimo bar scelto a caso avrebbe alte probabilità di trovarsi di fronte a un menu di venti pagine con almeno qualche centinaio di birre, di cui probabilmente due o tre dal suono vagamente familiare. Se si sedesse a un tavolo e si guardasse un po’ intorno, noterebbe come gli interni siano studiati in modo da essere accoglienti e difficilmente dimenticabili, spesso decorati a tema: si troverà a sorseggiare la sua pinta nelle antiche cantine dove la birra veniva conservata, o seduto in mezzo a una serie di inquietanti bambole a forma di troll, oppure circondato da libri usati, cartoline, vinili, vecchie radio. Se ordinasse la birra giusta nel pub giusto, potrebbe venirgli chiesto di togliersi una scarpa.

Premessa indispensabile alla comprensione di quest’ultima stranezza.
Il lettore ricorderà come, in questo e nel precedente articolo, l’amore belga per la birra sia stato definito un culto. Non è stata un’esagerazione. In Belgio, ogni tipo di birra deve essere rigorosamente servito nel suo specifico calice, appositamente creato per esaltare al massimo ogni sfaccettatura di gusto della birra in questione – o semplicemente perché il suo inventore si sentiva particolarmente creativo. Il bicchiere della Bush è rotto in mille pezzi e tenuto insieme da un sottile strato di colla; quello della Duvel è liscio e rotondeggiante; quello della Westmalle ruvido e leggermente squadrato; la Orval viene servito in un bicchiere pesante, di forma conica e con il bordo in metallo; il bicchiere della Kwaak non sono neanche lontanamente in grado di descriverlo, quindi vi allieterò con una foto.

Sobrissimo bicchiere della Kwaak. Non chiedete perché.

Mille birre diverse, mille bicchieri diversi: per fare il barista in Belgio dovresti aver bisogno almeno di due lauree. Oppure (come in effetti è) essere abituato a berle e a riconoscerle dalla tenera età di otto anni.
Lasciamo però da parte i giovani alcolisti belgi, e torniamo alla storia delle scarpe. Immagino che la premessa fatta fin’ora non abbia contribuito molto a chiarire le perplessità dei lettori.
Il collegamento tra le scarpe e i bicchieri è semplice: alcuni di questi calici, essendo estremamente elaborati, sono di conseguenza molto costosi. È dunque abbastanza comprensibile che i proprietari vogliano una sorta di deposito o assicurazione che il cliente che sta sorseggiando una Kwaak nei tavolini all’esterno non decida di infilarsi il bicchiere nello zaino e portarselo a casa. Un deposito monetario, però, è un’idea troppo banale e noiosa perché si affacci alla mente contorta di un belga: da qui la tradizione, in alcuni pub, di chiedere al cliente una scarpa in pegno. Non è difficile vedere, seduti al tavolo, distinti gentiluomini in giacca e cravatta senza una scarpa e con un coloratissimo calzino di Superman in bella vista; inoltre, seguendo più o meno la stessa logica per cui nel Medioevo le teste dei criminali venivano affisse alle mura della città, fuori da questi pub sono appese a un filo tutte le scarpe dei ladri di bicchieri accumulate negli anni.

Monito ai ladri di bicchieri di fronte a un bar in centro

Se, come diceva il buon Alatriste, le Fiandre sono l’Inferno, sono profondamente triste per coloro che attendono il Paradiso: mi dispiace ragazzi, probabilmente sarà una noia mortale.

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