La prima volta ero di là, ora sono di qua. Ché poi in realtà sono finito irrimediabilmente di là preciso ogni fine settimana, mentre Tel Aviv ci andava giù pesante a far festa la sera prima dello shabbat. Quantomeno, però, ora concludo questa rubrica da Tel Aviv.
Mi aggiro per trovare una mia amica tra i quartieri della periferia della città, gli stessi che mi avevano accolto al mio arrivo – quelli con i capannoni vuoti, gli agglomerati di case popolate da branchi di gatti, i graffiti dissacranti sui muri scrostati e mezzi crollati. È la zona che ho imparato a conoscere meglio: quella della stazione centrale dei bus che mi portavano ogni settimana oltre la barriera di separazione, oltre i check point; quella dove si ammassano e convivono gli immigrati irregolari provenienti dall’Eritrea, dal Sudan, dall’Etiopia; quella dei tossici stravaccati ai bordi delle strade con i buchi nel naso a forza di sniffare piombo; quella dove si incontrano i fioi e le fie di diciotto anni che aspettano il verde per attraversare la strada e tornare a casa dopo la giornata di leva, i pantaloni mimetici infilati negli scarponi e la carabina a tracolla.
La mia amica è una ragazza israeliana che è finita in tribunale perché ha deciso di non fare il servizio di leva: ha dovuto dimostrare con un avvocato di essere pacifista e allora si è risparmiata i due anni di servizio militare. Si chiama A., ha trentatré anni, i capelli neri e i modi schietti e fermi. L’ho conosciuta ad una manifestazione in un villaggio nei Territori, tra gli shebab che tiravano pietre e i soldati che sparavano gas e granate assordanti.
Quando ci troviamo tra i banchi di verdure del mercato, mi saluta. Sei ancora vivo!, mi dice con il suo bel sorriso.
Ma grazie al cazzo, penso io, ma rispondo, eh già. Hai visto? Mai paura!
Mai paura, no?, convengo sempre nella mia unica e abituale certezza. Ed è così che finisce.