The Whole of the Moon sembra sia stata originariamente iniziata per mostrare alla ragazza di Mike Scott cosa significasse scrivere una canzone. Uno scarabocchio sul retro di una busta.
Il prodotto finale di quest’abbozzo casuale è, invece, estremamente diretto fin dal principio. I pictured a rainbow / you held it in your hands. Chi canta è in grado di descrivere, immaginare un arcobaleno, mentre la persona cui si rivolge è in grado di tenerlo fisicamente tra le mani. Il contrasto su cui s’imperniano le parole è quello tra chi ha sete di sapere, di esplorare, di conoscere, di capire, senza però mai riuscire ad arrivare al cuore delle cose, e chi invece, senza avere alcuno di questi desideri, si trova ad avere una comprensione più profonda e immediata delle cose. Chi ha il dono di riuscire ad apprezzare unicorns and cannonballs, palaces and piers, / trumpets, towers and tenements / wide oceans full of tears / flags, rags, ferryboats, scimitars and scarves / every precious dream and vision underneath the stars con naturalezza serena e spontanea, non mediata da un faticoso sforzo, che spesso sembra restare frustrato. I was grounded / while you filled the skies / I was dumbfounded by truth / you cut through lies […] I saw the crescent / you saw the whole of the moon.
Ciò che sembra però turbare il cantante è il fatto che quest’altra persona non sembri essere pienamente conscia di quanto sia straordinario il proprio dono. O, meglio, di quanto questo dono sia da reputarsi straordinario. I talked about wings / you just flew: semplicemente, quasi fosse un fatto da nulla e non, invece, formidabile. I wondered and I guessed and I tried / you just knew. L’interlocutore non ha bisogno di prove e tentativi, riesce a raggiungere l’essenza profonda in modo diretto, limpido. Ed è forse anche per questo che riesce, sì, a riconoscere la validità di quanto è capace di fare, ma non a considerarla con la stessa reverenza che le tributano coloro che non riescono a giungere al medesimo risultato se non dopo faticose riflessioni. I had flashes / you saw the plan.
Si ha scritto in faccia un talento del genere? Si domanda Antonio Salieri nell’opera teatrale di Peter Shaffer Amadeus (1978) e nell’omonimo film (1984) diretto da Milos Forman. In questa versione romanzata della vita dei compositori Salieri e Mozart, Salieri ci viene presentato come un uomo che ama profondamente la musica, e che ha fatto voto a Dio di dedicarvisi anima e corpo, offrendo, in cambio della possibilità di diventare immortale attraverso di essa, la propria castità, la propria diligenza, ogni momento della propria vita, e, soprattutto, la propria umiltà. E, inizialmente, tutto ciò sembra riuscirgli: Ero un modello di virtù. Stavo lontano dalle donne, lavoravo per ore ogni giorno, facendo lezione ai miei studenti, in molti casi gratuitamente, partecipando a comitati infiniti per aiutare musicisti poveri – lavoro e lavoro e lavoro, quella era tutta la mia vita. Ed era meravigliosa! Piacevo a tutti. Piacevo a me stesso. Ero il più famoso musicista di Vienna. E il più felice. Fino a che non arrivò lui. Mozart.
L’arrivo di Mozart è traumatico per Salieri. Il genio che lui ha ammirato tutta la vita si rivela un uomo volgare, inappropriato, a dir poco sregolato. Il contrasto di cui si parla in The Whole of the Moon viene qui portato agli estremi. Salieri si sente messo alla prova da Dio: come può un uomo tanto rozzo essere degno dell’immenso talento che gli è stato dato? come può questa creatura (come lo definisce Salieri) essere all’altezza del suo stesso genio, della sua stessa capacità di produrre una musica che è la stessa voce di Dio, un’assoluta, inimitabile bellezza? Salieri ha studiato con Gluck, ha lavorato sodo e a lungo per riuscire ad arrivare dov’è, e questo becero riesce, con sforzo di tipo ben diverso dal suo, a cogliere la perfezione. Mozart è fin troppo consapevole del valore del suo lavoro (Sono un uomo volgare, ma la mia musica non lo è), ma è solo dalla prospettiva di Salieri che siamo in grado di capire quale sia il vero livello di un’opera miracolosa. L’italiano rimane squassato dal realizzare che Mozart è in grado di scrivere come non gli sarà mai possibile. Rivolgendosi a Dio, Salieri accusa: Hai scelto come Tuo strumento un ragazzino vanaglorioso, lascivo, sconcio e ricompensi me con la sola abilità di riconoscervi la Tua incarnazione.
È forse nelle scene finali che questo terribile contrasto ci è più dolorosamente evidente. Un Mozart malato detta a un interessatamente disponibile Salieri la partitura del famoso Requiem K626. È stato Salieri, travestito, a commissionare la messa a Mozart, per poi ucciderlo (parte del piano che però non era ancora stata messa a punto) e assumersi il merito della composizione, da suonarsi come funerale del rivale. Salieri si è offerto di scrivere sotto dettatura, e lo vediamo alle prese con la concretezza del divario tra i due. Mozart detta con chiarezza frettolosa, per lui ogni cosa è chiara e necessita solo di essere messa su carta. Per Salieri, però, si tratta di tenere il passo non solo con le indicazioni del genio, ma anche con il loro significato. Andate troppo veloce, ma, soprattutto: non capisco. Non capisco, eppure, avesse avuto in dono da Dio il talento dell’altro, lo avrebbe serbato con devozione. Gli avrebbe tributato il rispetto che solo qualcuno che sapeva cosa significassero difficoltà e fatica poteva comprendere, e non avrebbe dissipato in gozzoviglie e sperperi di denaro una capacità tanto preziosa.
You climbed on the ladder
with the wind in your sails
you came like a comet
blazing your trail
too high, too far, too soon
You saw the whole of the moon
