Era uno di quei giorni in cui ti rendi conto che il mondo è proprio piccolo. In quel giorno ho conosciuto L., su un treno diretto a Ferrara. Aveva venticinque anni ma era già sposata. Suo marito era palestinese di Hebron. Al ché quando ci salutammo andò così: eh sì, io vado a breve in Israele. Io invece vado domani da mio marito in Palestina. Bene, ci si trova là, bea, baci e abbracci.
Poco male: sono qui da lei per conoscere questo paese della Cisgiordania dove non sono mai stato. M., suo marito, ha ventinove anni e parla un italiano accidentato, ma pur sempre un buon italiano, quindi lo eleggiamo a nostra guida. Cercate di non fare foto, se possibile, ci chiede lui. Obbediamo.
Tra le varie situazioni dei Territori Occupati Palestinesi, Hebron si configura come il peggio del peggio. In questo paese la colonia israeliana, trasgredendo qualsiasi risoluzione delle Nazioni Unite, si trova non in adiacenza alla città palestinese, ma direttamente al suo interno. I soldati presidiano vari punti delle strade, in particolare gli ingressi della colonia, a cui si accede attraverso più di un check point. Questo ha portato a gravissimi attriti tra le due comunità. Solo un anno fa, durante gli scontri che hanno avuto luogo nei Territori in autunno, ad Hebron si contava un morto al giorno tra i palestinesi. Dall’altra parte numerosi feriti.
Perché hanno deciso di aprire una colonia proprio nel cuore della città?, gli chiedo.
Ad Hebron si trova la tomba di Abramo.
Il patriarca delle tre religioni, convengo.
Esatto, annuisce M., quindi anche gli ebrei ortodossi vogliono abitare qua. Ma per trasferirsi qua, dagli anni Ottanta ad oggi, hanno sfrattato intere famiglie palestinesi dalle loro case, hanno chiuso ogni attività commerciale, hanno chiuso le stesse strade.
Perché hanno chiuso le strade e i negozi?
La versione ufficiale è per il pericolo di terrorismo nei confronti dei coloni ebrei. La strada principale era Shuhada Street, che era la via principale del mercato. Ora ci andiamo.
Ci andiamo. Lungo il viottolo che porta a Shuhada Street sorpassiamo le botteghe aperte, i mercanti arabi. Noto che sopra la nostra testa, giusto a filo con il livello del primo piano delle abitazioni, un’ampia rete si aggrappa tra una casa e l’altra, un reticolato spesso e zeppo di sassi e immondizia.
A cosa serve?, chiedo a M.
È L. che mi risponde, serve a raccogliere tutto quello che i coloni gettano in testa ai palestinesi. Qui anche le case sono divise: gli stessi piani al loro interno. Di sotto abita un arabo, di sopra un colono. E questi gettano l’immondizia e i sassi di sotto. Quella rete è per non farsi piovere roba addosso.
Arriviamo a Shuhada Street: per entrare dobbiamo attraversare il check point più immenso che abbia mai visto. Almeno sei metri di altezza, per una larghezza di una decina. Dall’altra parte i soldati ci chiedono i passaporti e ci chiedono perché siamo qui.
Solo per vedere.
Non c’è niente da vedere qui.
Siamo turisti.
Il militare storce il naso, poi rivolto a M. dice, loro entrano ma tu resti qui.
Non importa, si intromette L., restiamo qui anche noi.
I militari ci lasciano fare qualche passo: la strada è lunga e deserta. Le porte verdognole dei negozi sono state saldate per impedire che venissero riaperte. Si percepisce una grande desolazione che grava sul paese. Notiamo una vecchietta araba che zoppica, si arrampica sui gradini all’ingresso di una casa, una casa che deve essere la sua casa. Apre la porta e scompare inghiottita dalla stessa desolazione che ci gravita attorno.
E lei?, chiedo a M.
Non capisci? Lei è una dei terroristi per cui hanno chiuso questa strada.