Di Giulia Barison
«Lui era bello, Dio, quant’era bello. Lo era soprattutto quando sorrideva imbarazzato, abbassava i suoi occhi smeraldo e li rialzava con sincerità. In quel momento, chiunque fosse stato in grado di comprendere il suo valore intrinseco si sarebbe sentito spiazzato dalla sincerità e dalla profondità di quello sguardo. Sarebbe fuggito, perché avrebbe saputo che, se avesse guardato ancora per una frazione di secondo dentro a quegli occhi, avrebbe conosciuto la sua anima. Lei, però, non era fuggita. Non temeva la conoscenza, anche se era la via più ardua e scomoda. Lei voleva leggere, riga per riga, la storia della sua anima, incisa con l’inchiostro più nero nei suoi occhi. Ed è proprio per questo motivo che continuava a guardarlo.
Lei era bella, Dio, quant’era bella. Lo era soprattutto quando, alla sera, dopo essersi struccata, si toglieva lentamente i vestiti, li ripiegava con cura ed infilava una maglia da uomo, arruffandosi inevitabilmente i capelli. Si distendeva a pancia in giù sul letto, apriva il suo libro ed iniziava a leggerlo con gli occhi lucidi e le labbra increspate da quel sorriso amaro che solo la carta e l’inchiostro possono provocare. Sembrava una bambina, era piccola e goffa in quella maglia troppo grande per lei, ma soprattutto sapeva emozionarsi in quel modo che dovrebbe essere estraneo ad un adulto, in quel modo che viene celato nel cuore dei bambini come il segreto più prezioso.
Lui, però, non rideva per questo. Sorrideva, abbassava lo sguardo e lo rialzava regalandole la sua più profonda sincerità, i segreti della sua anima. Il libro preferito di quella bambina.
Chiuse il libro, rotolò su un fianco, si infilò nel tepore delle coperte e spense la luce, regalandogli l’ultimo sguardo della giornata. Vide la sua luce spegnersi e chiuse gli occhi, sapendo che lui stava facendo lo stesso. Sapeva anche che quello era il loro momento, potevano finalmente ignorare la realtà e dar vita ai loro desideri più nascosti. Le piaceva immaginarlo accanto a sé, mentre le accarezzava lentamente i capelli arruffati e, con il suo silenzio, le raccontava le storie più belle.
Sospirò profondamente. Era giunto il momento più dolce ed amaro della giornata, quello in cui finalmente si può ignorare la realtà e dar vita ai propri desideri più nascosti. Gli piaceva immaginarla al suo fianco, mentre lo guardava negli occhi e, vicinissima alle sue labbra, aspettava. Chissà chi avrebbe vinto a quel gioco beffardo. Ma sapeva che la mattina dopo lei non sarebbe stata lì ad aspettare. La mattina dopo rientrava nella giurisdizione del reale.
Mentre aspettava che la moca borbottasse infastidita che il caffè era pronto, lo guardava leggere il giornale. I suoi occhi scorrevano le notizie, mentre avvicinava lentamente alle labbra la prima sigaretta della giornata, che esplodeva in riccioli di fumo tra i suoi baffi. Bastava uscire di casa, attraversare la strada e suonare al suo campanello, ma preferiva fare ciò che faceva anche lui: lasciare le tende tirate ed aspettare.
Le sue labbra si incresparono in un sorriso e fecero uscire lentamente il fumo acre. Sapeva che lei lo stava guardando, ma continuava a fingere di leggere le notizie, per le quali peraltro non provava il benché minimo interesse. “Finché il mondo sarà abitato da persone gelide ed impavide” pensò “nessun giornale riporterà notizie felici”.
La moca iniziò a borbottare insistente, finché lei non si decise a spegnere il fuoco. Versò il caffè in una tazza e lo bevve velocemente, bruciandosi la lingua. Come al solito era in ritardo. Le piaceva essere in ritardo, perché il fare tante cose in fretta non ti lascia il tempo per pensare a tutto il resto. Si lavò i denti, si truccò, si vestì, si pettinò, prese la borsa e corse fuori casa, dimenticando la porta aperta.
“Una persona così ordinata non dovrebbe dimenticarsi di chiudere la porta”. Quando la vide partire con la macchina, si lavò i denti, si vestì, prese la borsa ed i suoi progetti e uscì di casa. Attraversò la strada e raggiunse la casa di lei. Voleva solo chiudere la porta, ma non resistette ed entrò. Era la prima volta che vi entrava, eppure la conosceva come il palmo della sua mano. L’unica novità era quell’odore che si mescolava a quello di caffè tostato e che si faceva più intenso tra le sue coperte e nel suo armadio. Corse in strada, entrò nel bar più vicino, comprò un cioccolatino, tornò indietro, lo appoggiò sul suo cuscino e se ne andò chiudendo la porta alle sue spalle.
Era stanca. Il sole stava tramontando e lui doveva tornare ancora a casa. Accese le luci, si tolse il cappotto e le scarpe, prese il telefono, digitò il numero della sua pizzeria preferita ed ordinò il solito. Raccolse i capelli, si struccò e andò in camera ad aspettare leggendo. Era lì, incartato di alluminio rosso. Il cuore iniziò a batterle fortissimo ed istintivamente si girò verso la sua casa. Anche lui era lì. La guardò, capì, sorrise, abbassò la sguardo e le donò la sua dose quotidiana di sincerità.
“Stupido, stupido, stupido”. Lei aveva chiuso furiosamente le tende e lui, dopo anni, non poteva più vederla. Aveva infranto un patto segreto, aveva voluto combattere le leggi della geometria, quelle secondo le quali due linee parallele, per quanto vicine, sono destinate a non incontrarsi mai. Aspettò tutta la sera davanti alla finestra. Sapeva che cosa lei stava facendo, ma non poteva vederla e, quando vide le luci spegnersi, ormai anche una parte di lui si era spenta.
La pizza, ancora intera, era diventata ormai gelida sul tavolo. Piangeva silenziosamente mentre faceva scorrere tra le dita quel cioccolatino incartato di rosso. Il giorno dopo non avrebbe dovuto lavorare. Si truccò, scelse il suo vestito più bello, si pettinò ed uscì di casa traballando sui tacchi nuovi.
La luce si era riaccesa. Si alzò dal letto, corse alla finestra ed aspettò. Dopo poco la vide uscire in fretta di casa, bellissima e goffa in quel vestito elegante e quei tacchi troppo alti per lei. Per un attimo sperò che stesse venendo da lui, ma no. Non alzò nemmeno lo sguardo, salì in macchina e sfrecciò via, nella notte, chissà dove.
“Un Negroni”. Fece rotolare le monetine sul bancone, ma un uomo le bloccò e gliele infilò nella borsetta. “Offro io, ne faccia uno anche per me”. Era affascinante e solo.
“Siamo solo degli attori scadenti costretti a ripetere lo stesso identico copione, mentre la vita ride di noi, beffarda”. Aveva riaperto le tende, ma non era sola. Al suo fianco dormiva un uomo completamente nudo. La cingeva con un braccio, mentre lei guardava il soffitto con gli occhi sbarrati. Alzò il capo, lo vide. Era paralizzato e nei suoi occhi si poteva leggere chiaramente l’amarezza che stava provando. Si alzò dal letto felina, senza nulla addosso, si avvicinò alla scrivania, prese un pezzo di carta ed una penna ed iniziò a scrivere.
“NON TI ACCORGI DI QUANTO SIAMO PICCOLI SOTTO IL CIELO STELLATO?”. Premeva il pezzo di carta contro la finestra e lo guardava. Lui abbassò lo sguardo, ma questa volta non lo rialzò e nemmeno sorrise. Si girò e chiuse le tende.
Lei sapeva che era giunto il suo momento di agire, se voleva che lui riaprisse quelle tende. Ma non lo faceva. Combatteva contro se stessa, voleva stabilità e normalità e si accontentava dell’uomo affascinante che ogni notte dormiva nel suo letto.
Se solo lui avesse aperto le tende e guardato oltre la sua finestra si sarebbe accorto che non vi era più nessuna bambina dai capelli arruffati. Ma gli anni passavano crudeli e le tende rimanevano chiuse. E se solo, dopo tutti quegli anni, lui avesse aperto le tende e guardato oltre la sua finestra si sarebbe accorto che non c’era più nessun uomo in quel letto, ma solo lei, distesa a pancia in giù, in compagnia di un libro.
Si svegliò. Faceva caldo quella mattina. Accese il fuoco sotto la moca e guardò fuori dalla finestra; le tende erano aperte. Si precipitò in strada con addosso la sola maglia troppo grande per lei ed i capelli arruffati, la attraversò e suonò ripetutamente il suo campanello.
“Chi può essere a quest’ora del mattino?”.
Sentì una voce femminile lamentarsi.
“Arrivo!”.
Ancora la voce femminile. Trasalì e si nascose nel cespuglio più vicino.
“Eccomi!”.
Eccola là, sulla soglia di casa, con addosso una camicia da uomo. Era bella. Fece un’espressione perplessa e rientrò in casa chiudendosi la porta alle spalle. Lei fece lo stesso, provando vergogna per quanto era accaduto, ma soprattutto un’ineludibile amarezza.
Erano solo le sei della mattina ed aveva sentito il campanello suonare. Sapeva che era lei e per questo non era andato ad aprire la porta di casa, lo sapeva perché la sera precedente aveva aperto le tende. Ma corse comunque alla finestra, aspettando il suo ritorno.
I suoi piedi sferzavano ogni scalino, le lacrime le rigavano bollenti il viso. Sbattè la porta alle sue spalle e corse in camera. Chiuse furiosamente le tende, come aveva fatto molti anni prima. La moca era esplosa sul fuoco.
Lui sapeva che lei avrebbe chiuso le tende. Sapeva che quel cioccolatino incartato di rosso aveva dato il via ad un rapporto disperato ed indissolubile in cui entrambi erano destinati a non raggiungersi mai e a vivere alternativamente nel buio delle loro tende chiuse. Ma non sapeva che lei lo avrebbe aspettato.
E lei lo aspettò. Lei non era più una bambina dai capelli arruffati e nemmeno una donna alla ricerca di stabilità. Era la ragazza che avrebbe aspettato e che teneva le tende chiuse, ma che ogni giorno alla stessa ora le apriva leggermente, nella speranza che quella donna fosse sparita.»
“Questa storia fa proprio schifo.”
“Ho bisogno che me la pubblichi in qualche modo, schifo o non schifo.”
“Non posso, è terribile e io ho una reputazione da mantenere.”
“Fammi questo favore, poi scriverò tutto ciò che vorrai.”
“Anche l’articolo che ti avevo chiesto?”
“Anche quello.”
“Va bene.”
“Deve essere assolutamente pubblicata su questo giornale a questa pagina, come ti ho indicato in questo biglietto, mi raccomando, è importante.”
“Contaci.”
Tornò a casa molto lentamente quella sera.
Venezia era bellissima nelle sere di ottobre e meritava di essere accolta a passi lenti. Il cielo brillava di stelle. Si fermò e guardò attentamente in alto. Eccola là, la stella polare. Un sorriso amaro le increspò le labbra, abbassò lo sguardo e proseguì per la sua strada, aspirando a grandi boccate la salsedine.
Quella sera non mangiò. Si struccò, si tolse i vestiti, infilò la sua solita maglia da uomo e aprì le tende. Quella sera non aprì il suo libro, non ne lesse nemmeno una pagina. Si infilò sotto le coperte e si addormentò subito.
I primi secondi del risveglio sono meravigliosi: dimentichiamo ed ignoriamo i nostri demoni. Ma questo, d’altro canto, rende più traumatico ciò che segue.
Balzò giù dal letto e corse alla finestra.
Era lì che la aspettava con il giornale in mano, aperto a pagina sette.
Si guardarono per un’eternità, finché non corsero insieme in strada e si abbracciarono. Era così strano. Sentiva la felicità, una felicità mai provata, ma oppressa da un terrore folle. Sapeva che bastava che lui proferisse parola o facesse un qualsiasi gesto per cambiare le sorti di quel momento.
Fu per questo motivo, per quel maledetto terrore, che avvicinò le labbra al suo orecchio e gli disse: “Tocca a te scriverne il finale”.