Di Giulia Barison
Era giunta la stagione invernale ed insieme ad essa i cieli grigi, l’aria secca, gli alberi spogli – la linfa si ghiacciava nella segretezza della loro corteccia. Le piaceva far scorrere le dita tra i ciuffi d’erba imperlati di brina e strofinare i polpastrelli bagnati fra di loro. Era una ragazza persa nel limbo di quell’età ancora troppo infantile per provare l’adulta indifferenza nei confronti del romanticismo che scaturisce dal rosseggiare di un tramonto, ma abbastanza matura per credere nell’insufficienza dello stesso. Le piaceva la buona musica, pur essendo convinta della sua inesistenza – riusciva ad ascoltare le stesse identiche note per tutto il giorno, se erano quelle giuste. Indossava la maschera del cinismo in compagnia, si sforzava di mantenerla dietro ad una bottiglia di vino, ma la gettava e la calpestava nella solitudine dei suoi pensieri. Le piaceva guardare il cielo stellato, volutamente agnostica di astrologia, e immergersi nelle parole di un libro, nelle pennellate di un quadro, nelle vibrazioni di un canto solitario. Rincorreva l’idea dell’amore, ma dallo stesso fuggiva impaurita.
Le piaceva camminare, perdersi, vagare – percorreva con passi insicuri l’ignoto. Quella sera il suo sentiero era dolcemente illuminato dal riflesso della luna. Il legno morto scricchiolava sotto i suoi piedi. Il silenzio la avvolgeva con la sua melodia solitaria.
Chiuse gli occhi.
Li riaprì.
Eccolo là, nella sua bellezza quasi imbarazzante, ma allo stesso tempo confortante. La guardava con la sicurezza e la profondità infinita dei suoi enormi occhi azzurri – Dio solo sa quanto avrebbe voluto perdercisi e rimanervi intrappolata per l’eternità; il suo contrappasso per una vita trascorsa nel più segreto romanticismo. Il pelo scompigliato dalla brezza gelata della notte invernale ondeggiava in una danza dalle tinte scure sul suo corpo fiero e muscoloso. Gli artigli incidevano la terra ghiacciata e la coda rimaneva ferma nella solennità di una statua greca. Scoprì leggermente i denti aguzzi contornati da lunghi e neri baffi vibranti. Era una creatura divina, perfetta – emanava un’aura mitologica ed eterna, ma era reale.
Chissà per quanto rimasero a guardarsi, forse un’eternità.
Ma lei fuggì.
I suoi occhi potevano reggere la visione di un volo di uccelli, di un’alba, della nascita di una farfalla, ma quello era troppo.
Fuggì.
Il vento gelido le sferzava il viso, le si insinuava nelle orecchie come un boato, i rami secchi le laceravano la pelle, quasi la volessero trattenere contro la sua volontà, la terra gelida risuonava cupa sotto i suoi piedi.
Chiuse la porta dietro alle sue spalle e si rintanò nella sicurezza del suo balcone, accoccolata vicino alla finestra. Il tepore del suo respiro disegnava aloni opachi sul vetro freddo. Arrotolò con le mani tremanti una sigaretta, la portò alle labbra, frugò nella tasca alla ricerca di un fiammifero, lo sfregò sul muro e avvicinò la fiamma all’estremità della sigaretta che si accesse con un confortevole crepitio. Aspirò con foga il fumo acre, lo trattenne per qualche secondo ed infine se ne liberò soffiandolo lentamente attraverso le labbra semichiuse. Mentre i riccioli di fumo lambivano la sua ombra dipinta sul muro, pensava ossessivamente all’abisso di quegli occhi marini, così inadeguati nella morte invernale.
Trascorsero le ore, i giorni, le settimane.
Rimase lì, con il mozzicone ghiacciato della sigaretta tra le dita, la sguardo perso nel vuoto, la pelle blu cenere, il sangue denso di gelo.
Finché non si arrese.
Si alzò lentamente da terra, entrò in casa, accese il fuoco e vi si sedette davanti, allungando le mani violacee alle fiamme scoppiettanti. Pian piano il sangue cominciò a scorrere più fluidamente nelle vene e la pelle riacquistò la sua naturale sfumatura perlacea. Era trascorso un mese da quell’incontro beffardo e l’immagine di quegli occhi azzurri continuava ad ossessionarla, tanto da trascendere lo spirito di sopravvivenza. Decise così di uscire nuovamente di casa e di ripercorrere l’antico sentiero, il quale a distanza di decine di giorni conservava ancora il lascito della sua fuga, le impronte delle sue scarpe, i rami spezzati.
Si perse nuovamente nei meandri del legno e del ghiaccio, sotto il suo cielo stellato. Sapeva che le sarebbe bastato chiudere e riaprire gli occhi per trovarlo, ma non ne aveva il coraggio. Non aveva il coraggio di abbandonarsi a Morfeo, negligentemente ignorato per un mese, ma si trattava di un’impresa che diventava più ardua ad ogni passo. Le palpebre cedevano, gli arti tremavano, finché non si accasciò per terra, sfinita.
Trascorsero le ore, i giorni, le settimane.
Rimase lì, con i capelli che lentamente diventavano radici, la pelle che si incollava al terreno. Sognava. Sognava gli abissali occhi cerulei, il pelo folto, l’alito caldo. Sembrava tutto così reale…
Aprì gli occhi.
Ed eccolo là, ancora più bello che nelle sue fotografie psichiche. Teneva il muso vicino al suo viso, scaldandola con il tepore del suo fiato. Si guardarono per un’eternità – lei ormai sarebbe stata in grado di dipingere la più piccola sfumatura di quegli occhi.
Ma questa volta non fuggì.
Si fece forza, alzò lentamente una mano e la fece scorrere con dolcezza attraverso il suo manto grigio.
La vita ci offre due tipologie di emozioni – la sostanza di queste è fondamentalmente la stessa, ciò che le fa differire è come l’individuo le vive. Ci sono quelle emozioni che, come il fuoco di un fiammifero, bruciano e lentamente si spengono. E poi ci sono quelle emozioni che, come gli occhi cerulei del lupo grigio, bruciano in un’eterna ossessione. Solo coloro che conoscono l’eternità possono provarle. Lei, attraverso l’azzurro, l’aveva conosciuta.
Chiuse gli occhi.
Sentiva il pelo morbido accarezzargli le dita, il fiato caldo avvolgerle il viso.
Li riaprì.
Era sparito. Continuava a sentirne tangibile la presenza, ma non c’era più. E lei, in fondo, sapeva che non sarebbe più tornato. Tutto ciò che le rimaneva era un’emozione eterna, la morbidezza e il conforto imbarazzante di quegli occhi. Pian piano tornava il freddo a pungerle l’epidermide, si insinuava nelle vene e nelle ossa come veleno.
Si alzò e tornò al fuoco del suo nido.