N.d.r.: il 10 ottobre 2015, durante una manifestazione pacifista ad Ankara, due kamikaze si sono fatti esplodere nel mezzo del corteo, causando un centinaio di morti e oltre duecento feriti. Il terribile episodio, considerato tra i più sanguinosi avvenuti in Turchia, ha scatenato cortei di protesta in tutto il paese.
Di Sofia Cherici
È la notte dell’11 Ottobre. Istanbul attende l’arrivo della mezzanotte per chiudere i suoi occhi stanchi e riposare, finalmente, dopo giorni di tremiti. È nel mezzo del vento freddo che affiora un vociare continuo, un bisbiglio che si propaga e si trasforma, subissando i vicoli di Hisarüstü di sordi scricchiolii di passi. Ed ecco, come una marea che si alza con il sorgere della luna, i bisbigli si trasformano in scrosciare di pentole e in tuonare di voci. Una trentina di studenti agita tegami in aria e costringe gli abitanti ad alzarsi dai loro letti, interrompendone il sonno. Nessuno se lo aspetta: non ci si meraviglia più di molte cose, ma ci si stupisce ancora del coraggio.
È facile dimenticarsi di quello che è successo nella comodità delle proprie abitazioni. Una ragione giusta per svegliare Hisarüstü: ricordare ai cittadini che il sangue che macchia le strade di Ankara è arrivato fino alle case di tutti e sta bussando alle nostre porte; ormai non è più possibile ignorarlo.
Le luci delle case si accendono ad una ad una. Le guardo seduta sul cornicione della finestra, attendendo che il piccolo corteo passi anche dalla mia strada e mi ricordi quanto è facile lasciare che le cose scorrano per vicoli storti e torbidi senza lasciarci il tempo di svegliarsi.
Gli inni della marcia si propagano per il quartiere come canoni sparsi; mi ricordano gli slogan salmodiati che il giorno prima, nel pomeriggio del 10 Ottobre, avevano incendiato di tristezza e rabbia la principale strada di Taksim, Istiklal: uno dei cori di protesta più grandi che abbia mai visto. Non vale molto: non posso dire di essere stata testimone di molte altre manifestazioni, ma sono stata – e sono – testimone di questa. Non posso e non devo far tacere le mie labbra laiche anche stavolta.
“Katil Erdoğan.”
“Katil Erdoğan.”
“Katil Erdoğan.”
È l’unica frase che riesco a distinguere chiaramente tra i tanti slogan della protesta a causa del mio turco incolto. È vero, non posso capire le parole, ma riesco perfettamente a sentire i sentimenti che sovrastano questo enorme magma di persone che si è inghiottito le strade di Taksim. Terzani ci ha bisbigliato che “La vera comprensione è quella che va al di là della ragione e che si fonda sull’istinto, sul cuore”: ed allora perché non farlo, perché non chiudere la testa, per qualche attimo; perché non serrare le labbra, così piene di rumori e incomprensioni e attendere, attendere solo di sentire che le emozioni hanno pensieri ed idee bellissime dischiusi dentro. Sono cose difficili da esprimere con le parole, come se facessero parte di dimensioni opposte. Allora camminiamo solo, senza sforzarci di capire la loro lingua. La nostra marcia va dalla stessa parte e non c’è bisogno di spiegarlo in nessun modo.
Intorno a me ci sono palazzi di ideali di una nazione che non sa bene su cosa è fondata e quanti piani continuare a costruire prima di crollare. C’è un terremoto intorno a noi e la gente si chiede se sia meglio calpestarlo e lasciarlo squartare la terra sotto i nostri piedi o correre lontano, aspettando che il mondo smetta di tremare.
Alcune persone vogliono misurare la lunghezza di questo fiume che ha bloccato Taksim e scalano quell’inquietante monumento a forma di canne di fucili che sta al centro esatto di Istiklal. Rimangono lì, fumando una sigaretta dopo l’altra, aspettando qualcosa o forse niente. I loro profili si scavano sull’orizzonte delle bandiere e si lasciano cadere addosso la luce del giorno che sfuma i contorni e ci fa scivolare nel buio. Le ombre rendono tutto falsamente calmo, come se un enorme pezzo di stoffa avesse coperto tutto il disordine: un mare dalla superficie ferma e tirata turbato da correnti interne su cui veleggiano drappi silenziosi. I cartelloni di solidarietà lunghi tutta la strada, accompagnati da catene di persone che si tengono per mano, inneggiano alla solidarietà e alla pace. Si distinguono bene le scritte datate 10 Ottobre giustapposte al nome della capitale turca ed immagini di volti che ormai sono fatti di stoffa e cemento e ci guardano, ogni giorno, mentre li calpestiamo nel nostro tragitto quotidiano.
Incediamo insieme ai turchi, un po’ dentro e un po’ fuori dal loro sentire, separati da quella linea sottile che è la lingua e l’etnia, ma che non significa niente. Siamo solo fragili esseri umani davanti alla morte e alle ingiustizie. Tutto il mondo dovrebbe essere in lutto: è affare di tutti quando anche una sola donna piange. Cos’è questo senso di colpa che sentiamo? Molti di loro stanno marciando perché sanno che avrebbero dovuto essere là, ad Ankara, quella greve mattina bombardata di falsità. Uomini e donne di ogni età camminano insieme e si fermano, quando la testa del corteo rallenta il suo procedere. È un passo religioso, triste: battiamo i piedi sul cemento, riempiamo l’aria di schiocchi di lingua e fischi; sopra la testa delle persone si prolunga il fumo delle sigarette, in alto oltre il cielo che si incupisce. Sta arrivando la sera e non sappiamo ancora cosa porterà con sé, cosa farà di noi. Un elicottero continua a girare sopra le nostre teste: a guardarlo sento la vastità di questo Essere dentro cui sto camminando. Quanti siamo? A migliaia, forse. La polizia urla ai megafoni che donne e bambini dovrebbero allontanarsi, ma intorno a me i volti velati di madri, figlie e amanti continuano a tenere la testa alta e a far schioccare la loro lingua contro il palato in un grido costante e lamentoso, privato di ogni sfumatura di festa. Nei cadenzali momenti di calma in cui il coro riprende fiato, qualcuno intorno a noi – uno qualunque- inneggia un altro canto che si dilunga ad eco tutt’intorno: è acqua che ci scivola addosso, ci inonda da una qualsiasi parte del corteo e perdura, passa di bocca in bocca trasportato dal vento freddo che fende i buchi nella fiumana. Chiunque può iniziare qualsiasi cosa, tutti risponderanno.
Dentro al cuore della folla il pensiero della Sabina di Kundera mi bisbiglia nella mente: era così tanto spaventata dalle manifestazioni, da quell’essere enorme fatto di persone che camminano nello stesso modo: per lei tutte le cose più pericolose iniziavano con la voce di una folla e dei pugni alzati. Eppure li ho visti quei pugni alzati, tutti insieme, fermi e caparbi, ma non avevano nulla di terrificante; abbracciati dal religioso tacere di un popolo che aveva così tanto da dire da aver perso tutte le parole, solo il silenzio e le mani strette al cielo sembravano dare senso ai loro pensieri. Wagner avrebbe invidiato la santità di quel momento, tanto la auspicava nel suo pubblico: ma questa non è un’opera, non ha niente a che vedere con la messa in scena. La forza della realtà supera di gran lunga la narrativa.
Scivoliamo veloci ai fianchi della folla, passando vicino ai muri animati dai marchi della protesta: è l’odore di vernice che si propaga fino a raggiungere quello che sembra l’inizio della processione. Non riesco ancora a vedere i posti di blocco della polizia. Il ragazzo turco che è con noi ci indica una strada stretta e nascosta poco lontano dal punto in cui stiamo sostando, intimandoci ad allontanarci per qualche momento: così ci dileguiamo, mentre ancora i megafoni rimbombano nel cemento. Poco dopo, tornando sui nostri passi, tutto era svanito, improvvisamente. È bastato chiudere gli occhi per un istante e la calma caotica della processione si era dispersa; solo le mura imbrattate di rabbia e ancora quel forte odore di vernice persistevano.
A qualche giorno di distanza, ancora non riesco a cancellare dalla mia mente l’immagine di quella donna ai margini della protesta di Taksim che con gli occhi rossi guardava la corrente della folla scivolare verso i posti di blocco. Era da sola e piangeva, senza dire nulla, senza fare nulla. Pensavo che la tragedia di Ankara le avesse portato via qualcuno per sempre, che fossero lacrime di lutto le sue. Mi sbagliavo. L’ho capito quando, il giorno successivo, ho visto la mia coinquilina turca piangere allo stesso modo, con lo stesso sguardo di cosciente impotenza e rabbia, con lo stesso senso di ingiustizia e colpa che posso riscoprire negli occhi di quella donna al corteo di pace. Non so di chi fosse quello sguardo arrossato ai margini della fiumana e perciò, purtroppo, non posso dargli la forza di un’identità; ma posso ancora dare un nome alle lacrime di Didem; è vero, è solo un nome di una ragazza che per voi non è nessuno, solo un altro suono tra tanti. Eppure bisogna imparare a dare un volto alle cose, così da restituirgli identità e poter iniziare a riconsegnargli quel posto che gli spetta nella realtà: forse solo così disperderemo il distacco e non saremo più capaci di provare indifferenza.
Didem ha pianto. Didem ha pianto.
Ha pianto perché degli sconosciuti, dei ragazzi, delle persone sono morte per quello in cui lei stessa crede. Sono morte senza un motivo, ma non senza ragione, facendo quello che andava fatto.
C’è un nuovo dubbio morale che attanaglia i cuori dei giovani turchi: protestare e rischiare di morire per un cambiamento o piangere perché si crede e si sente di non aver fatto abbastanza.