RCF: Jukebox Letterario -Il fantasma di Giordano Bruno e la Serenissima Repubblica di Venezia-

Nella fredda mattinata del 17 Febbraio 1600, in Campo de’ Fiori a Roma, Giordano Bruno viene legato al palo, con la lingua serrata da una morsa perché non possa parlare, rifiuta sdegnosamente i conforti religiosi e il crocefisso e viene arso vivo. Le sue ceneri vengono buttate nel Tevere. Questo è il tragico epilogo di una vita dedicata a rivendicare la libertà di critica e di coscienza nei confronti delle religioni tradizionali. Dovendo rinunciare persino al nucleo costitutivo della sua filosofia il filosofo decide di difendere la sua verità morendo. Decide, dando prova di enorme coraggio, di morire sul rogo, piuttosto che abiurare. Il suo comportamento coraggioso diventa un enorme punto di riferimento morale: il filosofo italiano è considerato un simbolo mondiale del libero pensiero. Il suo spirito indomito è evidente leggendo le beffarde, immortali parole che Giordano Bruno pronuncia quando gli viene comunicata dai santi cardinali dell’Inquisizione romana la condanna a morte, dopo che lo hanno incarcerato e torturato per 8 anni:

«Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam»

«Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla»

bruno-giordanoNato nel 1548 a Nola, Filippo Bruno all’età di 18 anni entra nell’ordine domenicano, prendendo il nome di Giordano. Dopo circa dieci anni, però, la sua insofferenza per le istituzioni lo convince ad abbandonare la vita monastica e, dopo varie peregrinazioni, anche l’Italia. Inizia così un lungo periodo di vagabondaggio intellettuale. Il suo primo soggiorno a Venezia dura solo un mese e mezzo, trascorso “a camera locante, in casa di uno dell’Arsenale”. La sua prima impressione su Venezia è positiva ma non trova di che guadagnare a sufficienza; per di più è in corso una delle solite epidemie di peste, che ha già fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come per esempio il pittore Tiziano. Bruno si sposta dunque a Padova, per trasferirsi negli anni seguenti a Ginevra, Parigi, Londra, Francoforte. Nel 1591 Giordano Bruno, tramite il libraio Ciotti che ha conosciuto in Germania, viene invitato a recarsi nuovamente a Venezia dal nobile veneziano Giovanni Mocenigo che desidera imparare l’arte della memoria. In quell’epoca la Repubblica di Venezia è uno stato indipendente. Bruno sente, probabilmente, l’ostilità sia della chiesa riformata che di quella cattolica, sente anche di essere inviso ai puritani e indesiderato a livello europeo ma il ritorno in Italia non è una buona mossa. Quel lavoro, insegnare l’arte della memoria a un allievo ricco ma poco promettente, per Bruno in realtà è, fin dal primo momento, un ripiego e la stessa città di Venezia è una seconda scelta. Con l’aiuto di un contatto padovano, il suo vecchio discepolo Hyeronimus Besler, Bruno spera di ottenere la cattedra di Matematica all’Università di Padova, che sarà invece occupata da Galileo nel 1592, pochi mesi dopo l’arresto di Giordano Bruno. La scelta di tornare suscita notevole stupore tra i contemporanei, che la considerano una mossa estremamente avventata. Ma Bruno ritiene l’ambiente di Venezia sicuro e tollerante e pensa che la posizione sociale di Mocenigo sia una protezione sufficiente. L’immagine che Venezia offre agli intellettuali sbandati, perseguitati, alla ricerca di protezione e promozione è suadente e fascinosa. Bruno in realtà torna “a Venezia, non in Italia”. Inizialmente Zuane Mocenigo si presenta a tutta la nobiltà veneziana come un brillante mecenate e sfoggia il suo personale filosofo, dalla cultura ed erudizione fuori dal comune, nelle feste di gala e nelle riunioni salottiere. Crea il suo cenacolo culturale mettendo al centro un uomo che per natura, storia e conoscenze è però piuttosto scomodo, sostanzialmente un rompiscatole, sia per le sue idee che per il modo di esprimerle. Nello stesso periodo a Venezia è molto alla moda il “ridotto Morosini”, il salotto del patrizio Andrea Morosini, un importante centro di discussione filosofica, letteraria e politica, popolato di intellettuali eterodossi di ogni genere, tra cui Paolo Sarpi. Probabilmente Mocenigo non vuole essere da meno, pur non essendo affatto una mente brillante. Bruno ha la tendenza a risultare scomodo anche ai personaggi potenzialmente più favorevoli e si attira freddezze, antipatie e insidie. Ha dimostrato altre volte, nella sua vita, di esser capace di scontentare e infastidire tutti. Quando si rende conto che non otterrà la cattedra a Padova diventa insofferente ed è pronto a cercare altre strade. Fa preparare le sue cose e si prepara a tornare a Francoforte. Questo significa però rompere l’accordo con Mocenigo, che si offende a morte e medita una subdola e vile vendetta. Durante le lezioni che gli ha impartito, Bruno si è lasciato andare liberamente a molte divagazioni su argomenti più scottanti che non la geometria e la mnemotecnica. Dimostrando un a certa incoscienza e un eccesso di fiducia nella liberalità e autonomia della Repubblica veneziana, divertendosi a scandalizzare il suo ottuso studente, Giordano Bruno parla liberamente di argomenti astronomici, metafisici, etici, politici e teologici, ed esprime inoltre idee scandalose anche su argomenti più terreni. Da quando è arrivato a Venezia, non ha mai avuto motivo di pensare che qualcuno possa essergli tanto ostile da raccogliere le sue affermazioni e denunciarlo all’inquisizione. Ma si sbaglia. Mocenigo dice a Ciotti:

“Ho costui qui a mie spese, il qual me ha promesso de insegnarmi molte cose, et ha avuto robbe et denari in quantità da me a questo conto; io non lo posso tirar a conclusione; dubito ch’egli non sia homo da bene.”

Da bravo venessian il suo motto è: “Tochime tuto ma no i schei! (toccami tutto ma non i soldi)” È disposto addirittura a correre il rischio di mettersi in cattiva luce, magari di rischiare anche un’accusa di connivenza, pur di trattenere Bruno o, se trattenerlo fosse impossibile, pur di vendicarsi di colui che vede ora come un approfittatore. Il suo maestro gli ha promesso di insegnargli “l’arte della memoria ed inventiva”, e in cambio di questo è stato ospite pagato. Va quindi a chiedere consiglio all’inquisitore di Venezia, frate Giovanni Gabriele da Saluzzo, informandolo di avere in casa un uomo di cui ha recentemente scoperto l’eresia. L’inquisitore gli suggerisce come procedere. Così, appurato che Bruno è inamovibile nella sua decisione di partire, Mocenigo chiama il suo servitore Bortolo e alcuni gondolieri, e lo ferma con la forza. Lo rinchiude nel “solaro” e poi in cantina, e avanza con poco successo qualche altro tentativo di ricatto. Il giorno dopo Mocenigo torna dall’inquisitore a denunciare per la prima di tre volte l’ex maestro, e comincia a sciorinare l’elenco delle accuse. Alla fine del processo veneto la lista delle accuse conterà 10 capi:

1. Di avere opinioni avverse alla S. Fede e di aver tenuto discorsi contrari ad essa e ai suoi ministri.

2. Di avere opinioni erronee sulla Trinità, la divinità di Cristo e l’incarnazione.

3. Di avere opinioni erronee sul Cristo.

4. Di avere opinioni erronee sulla transustanziazione e la S. Messa.

5. Di sostenere l’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità

6. Di credere alla metempsicosi e alla trasmigrazione dell’anima umana nei bruti.

7. Di occuparsi di arte divinatoria e magica.

8. Di non credere alla verginità di Maria.

9. Di indulgere al peccato della carne.

10. Di aver soggiornato in paesi di eretici, vivendo alla loro guisa.

A pensarci bene io stesso potrei essere accusato di parecchie di queste cose, e voi?

Attraverso i sette costituti del processo veneziano, arrivati integri a differenza di buona parte del materiale della fase romana del processo, si possono seguire gli inquirenti del Santo Uffizio di Venezia nel loro percorso di esplorazione della vita, della storia e della produzione, di quella complessa personalità che era il loro oggetto di indagine.

La notte del 23 maggio Bruno viene prelevato dall’ufficiale Matteo d’Avanzo e trasferito al carcere del Santo Uffizio, a Castello, nell’attuale Via Garibaldi. Tre giorni dopo viene interrogato per la prima volta. Nel frattempo sono già stati sentiti i librai Giambattista Ciotti e Giacomo Brictano, che hanno lavorato e interagito con il filosofo. Nessuno dei due dichiara alcunché di nocivo nei confronti dell’imputato, anzi dicono che non possono direttamente attribuirgli dichiarazioni o atteggiamenti irriguardosi nei confronti della religione. Viene ascoltato, con tutti i riguardi, dovuti alla sua condizione, il nobile Morosini, che aveva ospitato qualche volta Bruno nelle riunioni che abitualmente si tenevano presso il suo ridotto; la sua testimonianza è ancora più benevola nei confronti dell’imputato; dichiara infatti che mai gli ha sentito profferire, nelle sue conversazioni, alcunché di disdicevole o contrario alla religione. Quando viene interrogato Bruno così racconta i fatti:

“e dopo che fu entrato lui sopraggionsero il suo servitore chiamato Bortolo, con cinque o sei altri, salvo il vero, che erano, secondo io credo e al mio giudizio, gondolieri de quelli che stanno vicini. E mi fecero levar di letto e me condussero sopra un solaro e me serrarono nel detto solaro, dicendo esso Sior Giovanni, che se volevo fermarmi e insegnarli li termini della memoria, delle parole, e il termine della geometria, che me aveva ricercato prima, che me averebbe fatto metter in libertà, altrimenti me sarebbe successa cosa despiacevole. Et io rispondendogli sempre che me pareva de averli insegnato abbastanza e più de quello che io dovevo,e che non meritavo di esser trattato a quella maniera, mi lasciò lì fino al giorno seguente, che venne uno capitanio, accompagnato con certi omeni che non conobbi et mi fece condur da loro, lì da basso nella casa, in un magazen terreno. Dove mi lasciarono fino la notte, che venne un altro capitano con li suoi ministri, e me condussero alle prigioni di questo S. Officio, dove credo sia stato condutto per opera del detto Sior Gioanni, il quale sdegnato, per quel che ho già detto, credo che averà denonziato qualche cosa di me”.

Mocenigo dichiara: “Ho sentito dire dal Bruno che alcuna religione gli piace; che il procedere della Chiesa oggi non è quello che usavano gli apostoli poiché loro, con esempi di buona vita, convertivano davvero la gente, mentre oggi si usa la forza e non l’amore; e chi non vuol essere cattolico bisogna che provi castigo e pena”.

E Giordano Bruno: “Ho detto che gli apostoli facevano più con la loro predicazione, buona vita, esempi e miracoli, che con la forza che si possa fare oggi, non negando però alcun rimedio che la Chiesa possa usare contro gli eretici ed i mali cristiani”.

Mocenigo: “Ho sentito dire dal Bruno che non vi è punizione dei peccati e che il non fare agli altri ciò che non vorresti essere fatto a te, basta per ben vivere. Mi disse inoltre che gli piacevano tanto le donne, e che si meravigliasse perché la Chiesa ne proibisse, diciamo, il loro uso naturale”.

Bruno: “Dico che siano necessarie per la salvezza delle anime e ho detto qualche volta che il peccato della carne in genere era il minore dei peccati e che la fornicazione sia tanto leggiero che fosse vicino al peccato veniale”.

Mocenigo: “Ho sentito dire dal Bruno che sono infiniti i mundi e che Iddio ne ha infiniti perché ne vuole quanti ne può”.

Bruno: “Io tengo ad un infinito universo, cioè effetto della divina infinita potenza perché stimavo cosa indegna della divina bontà e potenza che, possendo produrre molti altri mondi, producesse un solo mondo finito. In questo universo metto una provvidenza universale, per la quale ogni cosa vive, vegeta e si muove e sta nella sua perfezione, nel modo con cui è presente l’anima nel corpo; e intendo ancora che Dio, per essenza, presenza e potenza è in tutto e sopra tutto, non come una parte ma come anima, in modo inesplicabile”.

All’accusa di aver insegnato dottrine eretiche a Venezia, Bruno risponde di non aver mai “insegnato dottrine né dogmi eretici”, ma di aver solamente “discorso con molti gentiluomini di cose di filosofia”.

Qui l’inquisitore tenta di trarre in trappola Bruno, insinuando l’ipotesi che l’accusa di aver insegnato dottrine eretiche sia sostenuta da nuovi testimoni. Ma Bruno non ci casca e rimane fermo sulla sua posizione, mostrandosi sicuro che l’unico testimone sia lo stesso Mocenigo.Racconta poi della sua frequentazione del ridotto Morosini, sicuro che da parte di coloro con cui ha “raggionato de littere” non giungeranno conferme alla delazione di Mocenigo. E infatti ha ragione.

Bruno, nel processo di Venezia, si rivela ben disposto ad abiurare. Questo perché conta di scappare da Venezia, di liberarsi dagli inquisitori per poi riprendere a girare per l’Europa e salvaguardare la sua filosofia. Gli inquisitori veneziani gli danno la possibilità di poter abiurare in privato e il filosofo ne approfitta per avere salva la vita. Bruno pronuncia la sua abiura. Purtroppo però, come previsto da un decreto del 1581, gli Inquisitori sono tenuti a inviare al tribunale centrale, a Roma, un sommario dei processi ritenuti più difficili. Così accade con il processo di Bruno, quando l’Inquisitore fra Giovan Gabriele da Saluzzo invia al cardinale di S. Severina gli atti del processo veneziano. Poco dopo il cardinale risponde chiedendo il trasferimento a Roma dell’imputato. Il comportamento tenuto dalla Serenissima nei confronti del filosofo nella vicenda della sua fatale estradizione a Roma costituisce una macchia indelebile nella tradizione di autonomia legislativa e culturale di Venezia. Il 19 febbraio 1593 Bruno lascia il carcere veneziano di San Domenico di Castello. Arriverà a Roma otto giorni dopo, e sarà trasferito alle prigioni del Santo Uffizio. Il cardinal Roberto Bellarmino, potente Prefetto della santa Inquisizione, cerca in tutte le maniere di indurre Giordano Bruno ad abiurare. L’abiura gli risparmierebbe la condanna a morte, ma alla fine Giordano Bruno mantiene le proprie posizioni e affronta la pena. A condanna ormai avvenuta gli viene proposto ancora un qualche compromesso per evitare la morte, ma il filosofo sceglie di affrontare il rogo. Questa è la sentenza di condanna:

“Giordano Bruno, eretico impertinente, ostinato, impenitente e perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche e pene dalli sacri canoni, leggi e costituzioni, di qui condanniamo ad essere scacciato dal nostro foro ecclesiastico e dalla nostra santa ed immacolata chiesa della cui misericordia ti sei reso indegno. Ordiniamo che tutti i libri scritti dal frate siano guasti e abbrugiati, posti all’indice”

Una leggenda racconta che Ca’ Mocenigo vecchia sia visitata dal fantasma di Giordano Bruno. Ancora oggi, il giorno della sua morte, si dice che il suo fantasma ritorni. Cosa succede dunque nel vecchio palazzo? Guasti inspiegabili e improvvisi alle tubature, viti che si allentano, rubinetti che spandono, allagamenti. Sarebbero questi i segnali della presenza sovrannaturale. Ma nel corso dei secoli pare che il fantasma sia anche apparso in persona: appare solo a donne, anzi a vecchiette di più di 85 anni, chissà perché. Sembra che si sia mostrato sotto forma di volto incendiato alla finestra superiore destra del palazzo Mocenigo, quella del solaio dove fu tenuto prigioniero prima di essere consegnato all’Inquisizione. Forse dal Canal Grande potremmo vederlo proprio in questo momento.

Per la versione integrale della puntata:

Giovanni Morandini

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