Tàr, una bella favola

IN PRIMA LINEA

tempo di lettura: 4 minuti

Mercoledì 1 febbraio viene trovata morta una ragazza alla Iulm di Milano. 

L’1 marzo, un mese dopo, un’altra ragazza a Napoli viene trovata morta suicida. 

Entrambi suicidi connessi all’università. È sempre triste e quasi impossibile scrivere su certe notizie. Anche solo riportarle. Eppure queste due morti, per quanto tragico sia da dire, ci appartengono. Una stortura sistemica che miete vittime ma non condanna i colpevoli. Perché se una stortura è causata da precise scelte, non può essere frutto di un processo naturale. Eppure la colpevolezza è una dimensione complessa e ambigua. C’è, ma chi la stabilisce? 

Ecco, Tar è anche questo. È un’opera che riflette e fa riflettere pure su questo disagio. Mostra senza mezzi termini le aberrazioni di un sistema meritocratico e competitivo che influenza le scelte di donne e uomini e ne compromette le vite. Perché la parabola discendente della carriera di Lydia Tar non solo non è l’unica protagonista della storia ma si connette e forse viene provocata proprio dalle tragiche conseguenze di questo sistema.

Il film si apre con un suicidio e si conclude con una scomparsa di due giovani apprendiste. Due ragazze che come noi speravano di realizzare il sogno che una narrazione storica costante ci ha promesso. Che persone intrise di questa narrazione ci hanno promesso. È proprio la contraddizione tra la narrazione di qualcosa e la sua applicazione che genera questo cortocircuito. Lydia sembra non rendersi conto della gravità delle sue scelte. Lei è un’artista e nel mondo dell’arte si sa, entri per talento e allenamento. L’artista solo, l’artista genio, sempre diverso eppure sempre coerente. Una bella favola. 

“Se vuoi danzare il mask, devi servire il compositore, devi sublimare te stesso, il tuo ego e, certo, la tua identità. Devi, difatti, porti davanti al pubblico e a Dio e annientare te stesso.”, Lydia Tar

Così l’opera d’arte passa per l’uomo solo come mezzo. Il soggetto è ormai crollato, distrutto dal martello di Nietzsche e disperso nel sentiero di Heidegger. Lydia Tar con queste parole sembra quasi descrivere l’artista, ovvero un uomo, come un mezzo. Svuotato della sua soggettività e tramite di un “progetto più grande”. Crede in questo paradigma di pensiero e pretende di applicarlo. Ancora una bella favola. 

Ma cosa c’entrano le speculazioni sull’arte con la gestione di una classe o un’orchestra? Con la distribuzione di ruoli e salari? Perchè di questo si tratta. A cosa porta influenzare il pensiero di un proprio allievo con questa retorica? Il problema non potrebbe essere lo scarto comunicativo che c’è fra generazioni diverse; che vivono paradigmi di pensiero diversi; che vivono contesti socio-economici diversi?

È tutta qui la contraddizione di Lydia, dell’artista e dell’ego che lei stessa critica. 

Max si rifiuta di suonare Bach perché non si rispecchia con i suoi riferimenti valoriali ed ideologici. Bach era misogino e Max non vuole suonarlo. Lo vede non come un mezzo per la nascita dell’opera d’arte, ma come un uomo che crea influenzato dai suoi valori. Così se l’artista è misogino, l’opera sarà misogina. Un paradigma di pensiero che fa capo a condizioni storiche diverse rispetto a quelle della Tar. 

Eppure Lydia invece di comprendere questo inevitabile scarto, questa distanza generazionale, pretende di imporre il suo universo valoriale. Conclusione? Un ragazzo è stato umiliato e un’artista ha riaffermato il suo ego. È un fallimento educativo

Questo è solo uno degli episodi che mostrano durante il film la contraddittorietà dentro cui vive Lydia Tar. Un’apparente sicurezza di pensiero, di personalità che si scontra con le contingenze della vita. Che compromette le scelte di una donna che svolge un ruolo di autorità e che, seppur inconsapevolmente, determina la vita di altre persone.

Nonostante ciò sarebbe riduttivo colpevolizzare solo lei. Sarebbe anche ingiusto  per il lavoro del regista Tod Field manipolare così tanto il suo film. “Tar” come opera d’arte (e qui sì che la speculazione aiuta a comprendere) non si fa di vittime e colpevoli. È una finestra, molto filtrata, verso il reale. Verso, in questo caso, una realtà storica che vede i suoi giovani perdersi ed uccidersi. Lydia è solo un ingranaggio di un meccanismo non più grande degli uomini, ma più grande dei suoi ingranaggi. Un tritacarne meritocratico che è stato stabilito e che viene alimento, consciamente o inconsciamente che sia

Nei suoi difetti, nella sua densità ed anche prolissità, Tàr è un’opera che non solo riesce ad indagare il reale, ma che tartassa lo spettatore di domande e dubbi, ponendoci di fronte a dalle tragicità non facili da digerire. Non è un appello al cambiamento o alla rivoluzione, non avrebbe la pretesa di esserlo. Ma riesce a decostruire delle verità e obbligare lo spettatore a riflettere su ciò che ha visto, e su ciò che vive.

di Salvatore Gucciardo

Frame da “Tàr”

Frame da “Tàr”

Frame da “Tàr”

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