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Laetentur caeli et exultet terra. Iniziava così la bolla papale siglata nel 1439 da papa Eugenio IV. Che cosa suscitava una così grande gioia nel veneziano Angelo Condulmer, che da otto anni occupava la cattedra di Pietro?
Si tratta di una realtà di cui ultimamente qualche sparuta voce è tornata a parlare: l’unione tra la Chiesa Romana e quella Ortodossa. Facciamo un passo indietro.
Nel 1054 papa Leone IX, dopo secoli di progressivo allontanamento tra le due chiese, inviava a Costantinopoli Umberto di Silvacandida e il futuro papa Stefano IX a portare una bolla di scomunica contro il patriarca Michele Cerulario: vuole la tradizione che i legati avrebbero lanciato la pergamena sull’altare proprio nel momento in cui Cerulario stava consacrando l’ostia.
Probabilmente è una leggenda, ma il momento segna il primo scisma della Chiesa cristiana, perché da quel momento sarebbero nate due Chiese, entrambe convinte di essere depositarie dell’universalità del Cristianesimo e di seguire la via giusta indicata da Dio, al contrario degli scismatici d’oltremare: non è un caso che una si definisca ortodossa (“che segue il giusto pensiero”) e l’altra cattolica (“universale”).
Troppe le differenze politiche (il legame del patriarca con l’imperatore cozzava con l’indipendenza cui aspirava Roma), teologiche e, soprattutto, quelle inerenti alla superiorità papale: il vescovo di Roma, che fino a non molto tempo prima era stato uno dei tanti vescovi del Mediterraneo, ora voleva essere riconosciuto come capo di tutti i vescovi cristiani e Costantinopoli non ci stava. Non si pensi però che l’atto di unione di Eugenio IV quasi quattro secoli dopo fosse dovuto a motivazioni ecumeniche e pacificatorie, anzi. Condulmer era stato eletto nel pieno della temperie “conciliarista”, che sosteneva come il papa dovesse essere subordinato alle decisioni del Concilio, l’assemblea di tutti i cardinali e dei vescovi cattolici. Desideroso di riottenere la tradizionale superiorità della sede papale, il pontefice sfruttò una congiuntura favorevole: l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo era infatti alla disperata ricerca di aiuti militari contro gli Ottomani, e avrebbe accettato anche di approvare la riunificazione delle due Chiese pur di avere assistenza dall’Occidente. Nel corso del concilio di Ferrara, la riunificazione fu proclamata e il papa veneziano ne uscì vittorioso, perché lui, il pontefice, e non il Concilio, aveva ottenuto quello storico risultato dirigendone gli accordi e convincendo gli indecisi. L’autorità del magistero petrino era stata riconfermata.
Inevitabilmente la decisione ebbe effetti anche a Venezia. Dico inevitabilmente perché la città da sempre aveva legami con il mondo greco: non solo perché la sua base culturale delle origini era Bisanzio, ma anche perché l’intensa attività commerciale cittadina era rivolta soprattutto verso i territori dell’Impero e innestata in località di dominio veneziano, in cui la maggior parte della popolazione parlava greco. Non è un caso allora che la città lagunare divenne poi la meta privilegiata per i rifugiati bizantini scappati da Costantinopoli dopo la conquista turca del 1453. Venezia era, del resto, la meta ideale, visto che da molto tempo ospitava una folta comunità greca che dal 1446 godeva del diritto, proprio dietro concessione di Eugenio IV, di celebrare messe secondo il rito greco-ortodosso nella chiesa di San Biagio.
In cosa consisteva e consiste tuttora questo rito, anche detto appunto “bizantino”? Senza entrare nelle complesse lotte dottrinali, basti dire che l’amministrazione dei sacramenti viene data interamente al momento del battesimo, imposto per immersione (come si vede in una divertentissima scena del film Il mio grosso, grasso matrimonio greco); inoltre le liturgie sono più lunghe rispetto a quelle cattoliche, intervallate da canti di antichissima tradizione. Infine, la differenza più eclatante è ovviamente il fatto che gli ortodossi non riconoscono il vescovo di Roma come papa, ovvero capo della Chiesa.
Di fatto, la riunificazione voluta da Eugenio IV non funzionò: il clero bizantino non la accettò e ben presto anche i vescovi che l’avevano firmata la ripudiarono. Infine essa divenne priva di valore giuridico dopo la vittoria di Maometto II, che anzi potenziò la separazione tra le due Chiese. Il clima si fece sempre più teso e divisivo, ma a Venezia la storia seguì un altro corso.
La comunità greca della città, numerosa e fiera della propria identità, ben presto iniziò infatti a chiedere di poter fondare una scuola, una di quelle associazioni laiche che, nonostante la diversa origine, miravano tutte a garantire una qualche forma di protezione e di stato sociale: per un gruppo composto per lo più da esuli, con una lingua diversa da quella locale, con usi e costumi completamenti differenti e con un altro credo religioso era una necessità fondamentale. Il Consiglio dei Dieci concesse nel 1498 la fondazione della Scuola di San Giorgio dei Greci, che sarebbe stata di carattere “nazionale” e che si sarebbe poi insediata in un palazzo poco distante da San Marco, oggi sede dell’Istituto Ellenico.
La comunità però necessitava anche di un luogo di culto proprio, costruito secondo le modalità tipiche dell’Oriente e che non fosse semplicemente una chiesa latina “presa in prestito”: serviva un luogo che simboleggiasse l’identità greco-ortodossa, una chiesa della confraternita vera e propria. Non era una cosa facile da ottenere, nella sempre più difficile società europea del XVI secolo, dominata da una Chiesa cattolica sempre più diffidente nei confronti del diverso. Ma Venezia, come era sua abitudine, fece di testa sua: nel 1511 approvò la costruzione di una chiesa dedicata a San Giorgio in cui la confraternita potesse tenere i suoi riti bizantini. È vero che sia Clemente VII e Leone X promossero al pari di Venezia la tutela di questa comunità, ma è bene non pensare a motivazione di fratellanza ecumenica: la città veneziana in particolare necessitava di questo gruppo etnico, importante per i commerci con il Levante e per l’attività militare (greci erano molti dei cavalieri stradioti, mercenari della Serenissima) e, anzi, non mancarono i contrasti. Già negli ultimi anni del Quattrocento infatti Venezia aveva approvato la costruzione di un luogo di culto per i nuovi fratelli bizantini tornati alla fedeltà romana, ma quando comprese che i greci non sarebbero mai andati in questa direzione, bloccò la costruzione.
Solo nel 1539, dopo l’approvazione del 1511, la scuola dei Greci poté iniziare a costruire la chiesa di San Giorgio che si può vedere ancora oggi. Dall’esterno può sembrare una struttura in tipico stile rinascimentale come ve ne sono molte a Venezia: i lavori furono infatti diretti da Sante Lombardo, che aveva preso parte anche al cantiere della scuola di San Rocco. Si guardi però la cupola, perché, se ci si riflette, somiglia molto a quelle della basilica di San Marco che, come si sa, sono di chiara matrice bizantina; l’interno poi non lascia dubbi, con la sua immensa iconostasi (la parete che separa lo spazio dei fedeli da quello dei sacerdoti) dorata e coperta di icone, come in ogni luogo di culto ortodosso che si rispetti. Le icone però, a ben guardare, sembrano quasi riflettere un certo gusto rinascimentale nella loro composizione e nella realizzazione delle figure.

Forse la chiesa di San Giorgio, anche per questo ultimo particolare, è uno dei luoghi di Venezia che più si caratterizza come punto d’incontro; potrà sembrare retorica, perché ogni città di per sé è caratterizzata dalla fusione di più realtà, sia nella propria nascita sia nella propria formazione, ma ci sono città che lo sono più di altre e questo è a mio avviso innegabile. In questa piccola struttura si condensa l’intera storia di una comunità, che volle costruire una sede che fosse simbolo della propria identità, soprattutto in una terra straniera in cui essere greco e ortodosso non era e non è tuttora la normalità.
Entrando nel piccolo cortile della chiesa, sembra quasi di entrare in una piccola oasi e forse è questa l’immagine che più lo identifica: tra la Scuola e la chiesa di San Giorgio si muove ancora una comunità che ha qui trovato una sede per la propria cultualità e per la propria idea di Divino, spesso anche un riparo da un’Europa non sempre accogliente. Un insieme di persone che ha incontrato la città, la cui chiesa testimonia l’incontro di Venezia con la cultura greca, senza la quale la città non sarebbe come è oggi. Se proprio si vuole dare una personificazione a questa idea dell’incontro, si pensi proprio al patrono san Giorgio. È un santo leggendario di origine greca, guerriero contro il male (il famoso drago) e per questo motivo spesso scelto come protettore: l’Inghilterra, il Portogallo, l’Etiopia, i cavalieri di Malta, la Lituania, il Montenegro, la Georgia e la comunità rom lo hanno scelto come patrono. In questa figura si condensano incontri, legami e unioni internazionali che testimoniano quanto detto sopra. Del santo parleremo più approfonditamente in un altro articolo, ma per ora sarebbe bene riscoprire questa piccola “oasi ellenica” nel cuore della nostra città, per capire come essa si leghi e si incontri con il mondo intero.