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Valutazione: 3/5

Vincitore del Leone d’oro nel 2020 e di un Golden Globe nel 2021, Nomadland sembra essere destinato a trionfare anche agli imminenti Premi Oscar. Tuttavia, il film diretto dalla regista pechinese Chloé Zhao ha diviso sin da subito la critica, in particolare sulla possibilità di una riflessione socio-politica sulla cultura statunitense contemporanea che sarebbe offerta dalla pellicola.
Trama: 2,5/5

Le vicende di Nomadland si sviluppano attraverso una trama semplice e quasi priva di colpi di scena, ma non per questo insufficiente. La protagonista è Fern, una donna di mezza età rimasta recentemente vedova del marito. A seguito di questa perdita e della crisi finanziaria del 2008 che ha condotto alla chiusura dell’azienda di cartongesso in cui lavorava, la donna lascerà la sua casa a Empire, città ai margini del deserto, per diventare una nomade, perennemente in viaggio all’interno del suo van.
La pellicola si apre con una serie di lunghe sequenze in cui Fern è alla guida della sua casa a quattro ruote sulle strade innevate del South Dakota, che ricordano alcune famose scene del cult Fargo (fratelli Cohen, 1996) per cui Frances McDormand (Fern) aveva ricevuto un Oscar nel 1997.
A scandire il film sono i numerosi impieghi che la protagonista svolge in maniera intermittente presso Amazon e Wall Drug, e ancora come tuttofare in un parking e operaia nell’industria alimentare. Nel corso del suo girovagare precario, la donna si avvicinerà a una comunità di nomadi, dove stringerà alcune amicizie importanti che, seppur intense, si riveleranno brevi e passeggere al pari dei suoi numerosi impieghi. Nonostante diversi inviti a riprendere una vita stabile e sedentaria, Fern deciderà di continuare un’esistenza itinerante a bordo del suo van.
Regia: 3/5

La regia di Chloé Zhao, poco nota ai non esperti di cinema indipendente, è stata al centro dei dibattiti sulla riuscita del film. Zhao, nata in Cina ma con alle spalle degli studi in Inghilterra e negli Stati Uniti, è stata accusata dalla stampa statunitense di non aver criticato in maniera profonda il sistema capitalista nordamericano, di cui alcune delle aziende in cui Fern trova impiego sono simbolo.
In realtà, la critica anticapitalista è evidente in Nomadland ed emerge in maniera quasi scontata proprio nei silenzi, nelle parole non pronunciate dalla protagonista, che, davanti all’invito ad accontentarsi di una pensione misera, sostiene di cercare un impiego perché le piace lavorare. Questa critica, seppur sottintesa, è evidente anche nelle scene ambientate in uno stabilimento di Amazon, che richiamano esplicitamente le ultime inchieste sullo sfruttamento dei lavoratori da parte del colosso statunitense, tra cui quella di Internazionale.
E’ probabile che il principale obiettivo della regista non consista nel mettere in risalto una realtà di precarietà e sfruttamento già evidente nella società statunitense, quanto piuttosto nel richiamare l’attenzione su come in questa cultura anche i rapporti umani siano ormai sottoposti a una logica di consumo. Anche le persone che in tempi differenti offrono a Fern un tetto e un nuovo inizio in un contesto familiare non avanzano questa proposta in maniera disinteressata: sua sorella cerca per sé il sostegno e la stima di Fern, mentre Dave vorrebbe l’amore della donna, evidentemente ancora legata al marito. Zhao osa quindi spingersi oltre nel mostrare – e legittimare – la scelta di non andare avanti, di fare della propria vita la celebrazione di un’altra e di rifiutare di mettere un punto a una fase della propria esistenza per passare alla successiva, consumando il proprio passato come un qualsiasi prodotto. Forse la critica statunitense, che negli ultimi anni ha voluto espiare la sua cultura razzista ponendo sul piedistallo degli Oscar film come Moonlight (2017), Green Book (2019) e Parasite (2020), ha preteso da Nomadland una contestazione del proprio sistema economico e culturale che il pubblico non sarebbe stato capace di sopportare.
Cast: 2,5/5

Sull’esperienza del suo personaggio in Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri (Martin McDonagh, 2017), che assomiglia a Fern per fisionomia e scontrosità, Frances McDormand esegue una performance capace di sostenere da sé il coinvolgimento dello spettatore per tutta la durata della pellicola.
La protagonista è affiancata da pochi attori professionisti, essendo la maggior parte del cast composto da persone che hanno realmente intrapreso la decisione di vivere da nomadi negli Stati Uniti d’America. Tra questi, l’intima compagna di viaggio e guida di Fern, Linda May, nome reale della donna che ha ispirato la giornalista nordamericana Jessica Bruder per la sua inchiesta sul fenomeno che ha preso piede dopo la grande recessione e ha visto centinaia di anziani spostarsi attraverso gli Stati Uniti alla ricerca di un lavoro.
Conclusione
Sebbene gran parte del pubblico e della critica ricerchi ancora la narrazione colossale ed enfatica assente nei titoli candidati all’Oscar ormai dalla vittoria di 12 anni schiavo (Steve McQueen, 2013), l’opera di Chloé Zhao si pone come un’ottima candidata per il titolo di miglior film. Mettendo da parte la retorica nordamericana, la regista decide di narrare le conseguenze drammatiche che lo scoppio della bolla immobiliare ha avuto su una delle categorie più deboli della società americana in un tono affatto rassegnato e tantomeno vuotamente retorico. Questa narrazione rimane tuttavia un pretesto per una riflessione più profonda sulla precarietà delle relazioni personali in una società dove il nucleo si riduce sempre di più al singolo individuo e dove la scelta di consacrare la propria vita alla creazione e al mantenimento di rapporti umani significativi costituisce la vera sfida della contemporaneità.
di Sara Sicolo