Riflessioni varie di una turista qualsiasi durante i suoi viaggi in solitaria
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Ho sempre amato l’Europa, come continente, come posto in cui vivere, come Unione, come meta turistica. Così piena di storia e tradizioni simili ma tutte diverse, in uno spazio così ridotto. Sapevo di essere privilegiata per esserci nata e quanto importante fosse l’esistenza dell’Unione Europea nella mia vita ma, obiettivamente, i grandi svantaggi e pericoli che l’Unione è nata per scongiurare non li ho mai toccati con mano, e spesso tendevo a fantasticare su paesi lontani, sentendomi un po’ annoiata da questa realtà quasi monotona, o forse divenuta ormai troppo ovvia e quindi noiosa. Poi mi sono trasferita in Giappone, anche se solo per un anno scarso, e naturalmente ho cercato di approfittare di questo tempo per gironzolare all’interno del Paese, ma anche all’esterno, e in queste occasioni ho iniziato a notare piccole differenze con la mia vita e con i miei viaggi in Europa, le quali hanno aperto i miei occhi su aspetti del mio continente per me così scontati ma che non avevo mai davvero apprezzato. È stato come allontanare un’immagine dagli occhi e finalmente comprenderla nella sua interezza, senza la possibilità di soffermarsi sui dettagli, ma potendo osservare le connessioni tra tutti gli elementi che la compongono e che la rendono quello che è.
Proprio a maggio, l’anno scorso, sono andata a Seoul. Il volo da Tokyo durava un paio d’ore, ma il viaggio intero è stato molto più lungo: serve almeno un’ora e mezza per raggiungere l’aeroporto di Narita ed è consigliabile arrivare al terminal almeno due ore in anticipo, perché è necessario presentarsi al banco del check-in anche se si vola senza bagagli, per dichiarare quanto tempo si ha intenzione di restare in Corea e dimostrare di avere un volo prenotato per uscirne prima che scadano i tre mesi di visto turistico. Niente di nuovo, avevo già preso voli intercontinentali per i quali erano necessari un visto e un’attesa più lunga al check-in, ma in questo caso, anche se si trattava di un weekend in una capitale che distava due ore scarse di aereo da me, la distanza sembrava molto più ampia rispetto alle due ore che separano, per esempio, Bologna da Madrid. All’arrivo, un’altra ora di fila per i controlli in entrata: era sera ed ero sola e, nella noia, non ho potuto fare a meno di pensare che lo spazio Schengen non sia abbastanza apprezzato. Le distanze dovrebbero essere calcolate in tempo, non in chilometri, e ho capito come per accorciare questo tempo sia necessaria tanta volontà da parte dei paesi coinvolti.
La mattina dopo mi sono svegliata presto per la visita alla zona demilitarizzata, vicino al 38° parallelo, che divide la Repubblica di Corea dalla Corea del Nord: ufficialmente, questi due paesi sono ancora in guerra. Dal 1953. In Italia non si sente quasi mai parlare della Corea del Sud, tranne quando la Corea del Nord decide di lanciare qualche missile. Ecco, io ero lì, tra le persone che, in quei momenti – che a noi sembrano tanto lontani e assurdi, come fossero un film – continuano a vivere le loro vite, in una nazione divisa in due, che ufficialmente è una penisola ma realmente è un’isola, visto che da Nord è impossibile passare. La visita alla DMZ è piuttosto banale e palesemente costruita per attirare turisti, ma dà l’occasione di pensare tanto, perché la divisione esiste davvero.

A Seoul, poi, mi sono riscoperta analfabeta: parlo giapponese, ma il sistema di scrittura coreano è completamente diverso e quindi due ore di aereo sono state sufficienti per rendere questa mia competenza inutile. In Europa, per lo meno, riesco a leggere tutte le insegne che vedo: magari non ne capisco il significato, ma posso riprodurne il suono e digitarle facilmente su Google Translate. Ormai Seoul è piuttosto turistica e non posso dire che la lingua sia stato un limite al mio viaggio, ma ragionare sul fatto che, in quella parte di mondo, quasi tutti i popoli utilizzino sistemi di scrittura diversi ha ridimensionato immensamente il leggero orgoglio che provavo nel saper parlare, o quantomeno capire, più lingue europee. Conoscevo già le differenze tra i sistemi di scrittura giapponese e coreano, ma non avevo mai considerato il fatto che tali sistemi sparissero quasi completamente al solo uscire dal Paese corrispondente, e che quindi i rispettivi abitanti non avrebbero mai trovato il conforto di lettere riconoscibili durante i loro viaggi.

La cosa che, però, più di tutte mi ha fatta pensare all’Europa è stato un videomessaggio che passava ripetutamente sul treno che dal centro di Seoul porta all’aeroporto di Incheon. Tra uno spot pubblicitario e l’altro, veniva trasmesso un video con le “prove” dell’appartenenza dell’isola Dokdo alla Repubblica Coreana, contrariamente a quanto sostenuto dal Giappone, che chiama quest’isola “Takeshima” e la considera parte del proprio territorio. All’università avevo studiato questa disputa territoriale, che è in corso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma non avrei mai immaginato che sul treno per l’aeroporto, dove transitano ogni giorno migliaia di turisti giapponesi, potessero essere proiettate frasi accusatorie con così tanta insistenza.
Forse questo non c’entra con l’Europa, ma ho percepito un rancore irrisolto, che si trascina dal periodo bellico, che in Europa non avevo mai sperimentato. Certo, ci sono rancori e antipatie anche tra i paesi europei, ma mentre le nostre battute sui francesi che non usano il bidet e i tedeschi che mangiano würstel sembrano risolversi in questo, semplici battute, lì rimangono aperti parecchi conflitti la cui risoluzione non sembra affatto scontata. Naturalmente non si possono cancellare anni di guerra e di imperialismo giapponese dalla mente di due popoli con un semplice accordo, ma non mi ero mai resa conto di quanto poco lontana fosse la guerra, di quanto i suoi effetti fossero ancora visibili in certi aspetti del mondo. In Europa, il principale lascito della guerra è l’Unione Europea, eppure tendiamo a dimenticarci che viene da lì, proprio perché grazie alla sua esistenza conflitti simili sono stati evitati. Con ciò non intendo che qui siamo stati più furbi e che se l’Asia orientale ci avesse imitati ora la situazione sarebbe diversa: è evidente che le soluzioni che funzionano per certe realtà non sono adattabili ad altre, e mi piace pensare che, in tutti i casi, la soluzione adottata sia stata la migliore possibile, magari non ottima, ma la migliore tra le opzioni disponibili a quel tempo. Tuttavia, ammetto di aver provato un senso di gratitudine per il fatto che il mio paese e i suoi vicini siano parte di un’organizzazione il cui scopo è trovare compromessi, non accusarsi a vicenda.
Brava Chiara, belle riflessioni…complimenti.
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Che bel pezzo! Io comunque non capisco il cartello “No shelves”! 😅
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Credo intendessero che quei tubi non sono scaffali per appoggiare le valigie, ma non garantisco! Sull’aereo addirittura c’era il cartello “Literature Only”, che ancora non sono riuscita a comprendere 😅 Comunque grazie di aver letto, mi fa molto piacere!
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My pleasure! 😊 “Literature Only” effettivamente è ancora più strano 😄
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