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Sorpresa agli Oscar 2020 con sei nomination, Jojo Rabbit sbaraglia la concorrenza e si aggiudica la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale, di cui era già stato insignito ai BAFTA: outsider tra giganti – per budget e star coinvolte – quali Little Women, Joker, The Irishman, The Two Popes. Il film riporta tra i candidati uno dei Grandi Temi, sempre attuale e, paradossalmente, sempre più urgente: il nazismo, la lotta all’odio, l’accettazione del diverso in una prospettiva a-razziale, in un mondo osservato attraverso gli occhi di un bambino, che si destreggia tra scoperta dell’amore e drammi in famiglia, sempre accompagnato da un fedele amico immaginario. Ma la realtà è molto più complessa: il mondo inizia e finisce in una cittadina della Germania nazista, la donna amata è una bambina ebrea nascosta in soffitta per sfuggire al regime, la famiglia lotta in nome della libertà e, infine, il miglior amico immaginario è Hitler. E il protagonista è ariano, ovviamente: poster del Führer, bandiere e svastiche sui muri della cameretta. La Seconda Guerra Mondiale si insinua nella formazione di un bambino che vuole essere informato, capire in che direzione stia andando il mondo e impegnarsi attivamente per ciò in cui crede, accettando la sfida del dubbio, del dover ricostruire le proprie certezze.
La narrazione del regime hitleriano si riscopre addentrandosi in nuove vie per intessere una satira anti-odio che suscita lampi di divertimento sinceri, accompagnate da una buona dose di riflessione gravosa: fa piangere, ora dal ridere, ora dalla commozione. Ma “If you can reduce Hitler to something laughable, you win”, Rilke e l’amore saranno sufficienti?
Trama: 3½
Questa commedia nera muove da Caging Skies, romanzo della neozelandese Christine Leunens, ambientato nell’ultimo periodo della Seconda Guerra Mondiale. Johannes Betzler è un fanciullo di appena 10 anni membro della Gioventù hitleriana. Vive solo con la madre Rosie, accecato dalla propaganda nazista e con il Führer in persona come migliore amico immaginario: una caricatura istrionica, un prodotto della fervida fantasia di un bambino sinceramente ammaliato dagli ideali del Regime, ma in fondo inconsapevole della loro portata sul piano storico e umano. All’inizio del film, il bambino parte con Yorki, il migliore amico (nella vita vera), per un campo di addestramento della Gioventù hitleriana su ideologie e tecniche di guerra. Arrivano però subito i primi problemi, quando fallisce miseramente nella mansione di uccidere un coniglio che stringeva tra le braccia. Dal rifiuto di compiere un tale gesto, inumano e ingiustificato, derivano il nomignolo Jojo Rabbit, una fuga disperata dall’umiliazione e derisione dei compagni, e un ritorno in grande stile ancor più disastroso: Johannes lancia maldestramente una granata, la cui esplosione lo travolge e ferisce su volto e gambe.

Infortunato, raccoglie cascame e fa propaganda per il Regime finché non scopre che la madre nasconde in casa un’adolescente ebrea, Elsa Korr. Tra i due si instaura uno strano rapporto, con Jojo che vuole consegnarla alla Gestapo prima e usarla come fonte per scoprire i “segreti ebrei” poi. Elsa si fa beffe di lui fantasticando sui “poteri ebrei”, si confida raccontandogli del fidanzato lontano. Pur arrabbiato con la madre che, a suo dire, tradirebbe la propria nazione, Jojo si prende sempre più cura dell’amica ebrea.
In seguito, la madre segretamente si innalza a paladina dell’opposizione e il fanatismo di Jojo viene a poco a poco smussato dalla conoscenza di Elsa, della quale riconosce la profonda e vera umanità. Colpi di scena – che qui tacerò per lasciare intatta la suspense – nelle sorti della madre e nelle sfide affrontate dai due nuovi amici si succedono nella parte centrale del film, in un percorso di formazione e scoperta della propria identità che, nel protagonista, si traduce nel divenire sempre più coraggioso e consapevole del mondo di cui è parte: Jojo prende a calcioni l’amico immaginario Hitler, scaraventandolo fuori dalla finestra.
Nel frattempo la guerra volge al termine: Americani e Sovietici sono alle porte della città, Hitler è morto. Iconico è lo scambio di battute ironiche e taglienti tra Jojo e l’amico Yorki, ritrovato nel caos generale degli ultimi spasmi di guerra: Jojo “Niente ha più senso ormai”, Yorki “Lo so, decisamente non è un buon momento per essere un nazista”.
Le ultime scene sono di lotta disperata dei fanatici rimasti, di sacrifici inaspettati in nome dell’amore e di ritorni a casa. I due ragazzi finalmente escono per strada, liberi e innamorati – come fratello e sorella. E ballano.
Regia: 3½
Nel 2011 il regista neozelandese Taika Waititi concepisce l’idea dell’adattamento cinematografico dell’opera della Leunens, ma fatica a trovare produttori che credano altrettanto nel suo progetto. Con Jojo Rabbit aspira a inserirsi nel filone dei cantori in forma di commedia, commedie nere che hanno fatto la storia: da Chaplin (Il grande dittatore) a Benigni, passando per Lubitsch (Vogliamo vivere!) e Train de vie, giocando tra scherno e irriverenza, affidando al riso la missione di insinuare interrogativi e riflessioni. Ne mantiene il carattere istrionico e caricaturale, nella figura del dittatore un po’ maldestro un po’ egocentrico, ma ancora di più nei rapporti tra i bambini: Yorki, paffutello e affabile, sorridente e sinceramente affettuoso, è esemplare, nel giocare con Jojo, nel prepararsi insieme per il “campo estivo”, nelle bambinate innocenti insieme all’amico. E ancora Jojo, che si mangia le parole nel dire “Heil Hitler”, Capitan K, generale wannabe che prepara in anticipo improbabili divise per il trionfo finale, con tanto di pennacchio rosso in testa, l’educatrice/infermiera/tuttofare che esulta “Ragazzi, è ora di bruciare qualche libro” e l’euforia collettiva intorno al falò. Waititi alterna il sovraccarico umoristico con drammi che chiamano a prendere coscienza della gravità dei fatti, del contesto generale entro cui questi sketch hanno luogo: le lacrime di Elsa, spaventata per il futuro, che si interroga prima su cosa significhi diventare donna, poi se lo diventerà mai, se le sarà dato di vivere abbastanza per scoprirlo, per affrontare la sfida. Il ritmo del racconto si distende, lo sguardo si sposta a catturare i dettagli, a sottrarli allo scorrere del tempo, il silenzio attutisce e innalza allo status di immortalità e universalità.

Lo sfondo è un villaggio della Germania nazista, oggi in Repubblica Ceca, privo di riferimenti spaziali precisi ma con lo stesso tenue cromatismo delle scene di Grand Budapest Hotel. La precisa scelta di anonimità sottrae la costruzione scenografica allo spazio e al tempo, abbracciando idealmente ogni angolo del mondo e istante della Storia, intensificando così l’universalità del messaggio: il pericolo creato dalla propaganda dell’odio e l’imperativo categorico di lotta a cui siamo chiamati per scongiurarlo.
Menzione speciale per la colonna sonora, quanto più ampia, multiculturale e intergenerazionale possibile, che si fa portavoce della replicabilità della martellante propaganda nazista, rischio a-spaziale e a-temporale: brani originali di Michael Giacchino, Beatles, David Bowie, e molti altri. Il film si apre con il marasma generale delle adunate naziste sulle note di Gib mir deine Hand (I want to hold your hand, The Beatles), i titoli di coda scorrono con Helden, versione tedesca di Heroes (David Bowie), per sottolineare l’apice della carica emotiva che scoppia sul finale ricollegandosi alle note iniziali.
Cast: 4
Roman Griffin Davis interpreta Jojo, bambino con sogni di gloria di diventare eroe di guerra ariano ma frenato dalla propria grande sensibilità e altrettanto grande impressionabilità. Alla prima apparizione sul grande schermo, porta a casa il Critics’ Choice Award per miglior giovane attore: rivelazione sorprendente per l’espressività, la potenza dei gesti e la grande consapevolezza di ogni sua azione, prima nel gioire con Yorki e nel mostrare paura di fronte al coniglio, poi nello sfidare i grandi capi e nel dichiararsi a Elsa emozionato, senza filtri.
Scarlett Johansson assalta gli Oscar con 2 nomination, tra cui Miglior attrice non protagonista in Jojo Rabbit, qui ottima come mamma affascinante, amorevole, sfuggente, in equilibrio perfetto tra dramma e indifferenza: è il volto dell’amore puro, della gioia sincera del vivere e del sacrificio nella lotta per i propri ideali. Magistrale, potente è la scena in cui si finge il padre, assente, ricreandone la barba nera e folta con la pece, e impartisce una preziosa lezione di vita al figlio, perché sia in grado di riconoscere ciò che è giusto e sappia apprezzare il valore di quello che possiede, per quanto poco. Poi continua, da sola, col suo calice di vino rosso, ballando, ballando e ballando, innamorata della vita. Iconiche sono le sue scarpe. Prima ballano, al fiume con il figlio, nella scena dopo sono ferme e così rimarranno. Scarpe di una persona per cui la danza è tanto importante perché “appartiene alle persone libere”.

Taika Waititi è costar, con la grande responsabilità del personaggio di Hitler: un altro nome importante del cinema hollywoodiano avrebbe oscurato il fulcro della storia, i ragazzi, e portato l’attenzione degli spettatori lontano. La caricatura funziona, è presente nella prima parte quale pungolo verso il dovere e supporto psicologico per il baby soldato in erba, mentre scivola via nella seconda, sempre più bambino petulante e sempre meno temibile dittatore, a sottolineare quanto gli schemi mentali del protagonista stiano mutando: geloso e scontento, con la guerra e l’interesse del ragazzo ormai perduti. È l’umanità di Elsa il motore della crescita di Jojo: fa breccia nella mente del bambino, annebbiata dalla propaganda, e ne distrugge le solide convinzioni filonaziste. Mentre il protagonista scopre la bellezza della vita e delle emozioni, la forza dell’amore puro verso il prossimo, l’amico immaginario Hitler vive la sua parabola discendente, a sottolineare l’impossibile coesistenza tra le idee naziste e la nuova consapevolezza acquisita da Jojo, anticipando il definitivo crollo del Regime.
Conclusione
Lo iato intercorso tra la concezione dell’idea, nel 2011, e l’ottenimento dei finanziamenti necessari per la produzione, nel 2017, ha caricato il film di impellente urgenza, di fronte all’ondata di ritorno di politiche d’odio e ideologie nazional-sovraniste. La forza di Jojo Rabbit affonda le radici nella forte attualità delle tematiche per cui la Storia continua ad essere per noi magistra vitae e nella reattività a rispondere alla chiamata per nuove forme di comunicazione: sul filo dell’equilibrio tra commedia e film drammatico. Waititi è stratega nel disarmare col riso e, una volta reso lo spettatore più ricettivo, nel guidarne il pensiero: pur scadendo alle volte in un facile sentimentalismo e trovate retoriche forse non necessarie, il maquillage tra riso e pianto è efficace nel dare nuova vita a questi temi. Non abbastanza per entrare nel circolo dei pochi eletti grandi capolavori del cinema (o almeno della narrazione di quegli anni drammatici), ma perfetto perché si presta a molteplici importanti letture (quale la raffigurazione degli ebrei nell’immaginario popolare) e, soprattutto, perché aspira a sottolineare, ancora, incessantemente, l’azione a cui tutti siamo chiamati: di accoglienza, accettazione, sacrificio e coraggio, rinascita.
Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore. Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano. Rainer Maria Rilke (come riportato nei titoli di coda)
di Francesca Rinaldi
Tra i film candidati agli ultimi Oscar è molto bello anche Le Mans ’66: l’hai visto?
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