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A Mestre è stato da poco inaugurato il Museo M9, il Museo del Novecento, con l’intento di promuovere il centro storico grazie alla riqualificazione dell’area. Sia l’edificio che la mostra al suo interno sembrano voler stare al passo con le ultime tendenze: in una struttura che ha un che di postmoderno si ripercorre la storia del secolo scorso in forma completamente interattiva, grazie all’ausilio delle meraviglie della tecnologia. I due piani della mostra sono suddivisi in aree tematiche circolari, il cui ordine cronologico è di difficile individuazione: poche scritte in uno spazio quasi completamente buio, dove l’unica fonte di luce è quella dei led abbaglianti di schermi grandi e piccoli. Che lo spettacolo abbia inizio: a disposizione del visitatore degli occhiali digitali per scoprire com’era il Veneto 100 anni fa, cuffie per sentire i discorsi dei politici più importanti, specchi truccati per indossare i vestiti dei nostri antenati, quiz per il riconoscimento dei dialetti d’Italia. C’è persino una mini discoteca per ballare i ritmi che canticchiavano i nostri nonni e i nostri genitori, una TV per rivedere il Carosello e la riproduzione di un rifugio. Se schiacci quel bottone lì, ecco, li senti i rumori delle bombe?
Tutto molto bello. Perché, allora, quando esco da lì percepisco una forma di confuso disagio insoddisfatto? C’è qualcosa che non va, al di là del fatto che a pochi mesi dall’apertura tanti dispositivi sono già guasti o mal funzionanti. A voi che ci siete entrati, all’M9: cosa vi ricordate della vostra visita? Ne siete usciti arricchiti, pieni di riflessioni appaganti sul nuovo e sul vecchio secolo? Per quanto mi riguarda, mi ricordo solo le lucine colorate delle attrazioni che ho visitato. Come un parco giochi. Mi ricordo che non ho indovinato il dialetto abruzzese – ancora brucia – e che ho visto Calimero diventare da pulcino bianco a pulcino nero, così ammaliata dallo schermo da non soffermarmi sullo scalpore che questo spot farebbe oggi.
Per il resto, ho la testa che gira a vuoto intorno a un ammasso disordinato di informazioni slegate, che dà un effimero senso di ‘pieno’ grazie alle vorticose stimolazioni sensoriali del percorso di visita. Tutto ciò, a lungo termine, non significherà niente per me. Sono uscita da un posto che privilegia la quantità sulla qualità, una pienezza effimera ed un vuoto duraturo. Un posto che per l’apprendimento ha scelto la via dell’intrattenimento: oggi, a quanto pare, si può comprendere qualcosa solo se lo si vive, se ci si identifica e vi si associa nell’immediato una precisa emozione. Non c’è un dopo per riflettere. Ma questo si fa solo con i bambini, e i bambini non sono affatto gli unici fruitori del Museo.
D’altronde, quella che potremmo chiamare una forma di “conoscenza per approssimazione”, confusa e superficiale, è certo da attribuire alla nostra epoca e non da imputare a un Museo che ha svariati lati positivi. Alla generazione che scorre la bacheca Facebook con una soglia di attenzione che sta calando dai 13 ai 4 secondi insegnano che il facile deve sempre essere preferito al difficile. La ricezione passiva ed effimera di informazione ha la precedenza sul ragionamento critico, complesso, faticoso. E quello che ci resta è un ammasso scivoloso, approssimativo e caotico fatto di flash colorati che a stento potremmo definire ‘conoscenza’. Dunque, in un museo di Storia: perché usare la nostra immaginazione quando un codice binario dà l’esatta riproduzione di ciò che non possiamo avere indietro? perché fare qualsiasi sforzo cognitivo per andare al di là del ‘meraviglioso’?
In sostanza: quello che dovrebbe essere concepito come un mezzo, ovvero il carattere interattivo di un Museo che punterebbe all’ammaestramento, diventa il fine ultimo. La forma è importante, non il contenuto. Il vero scopo è l’intrattenimento, mentre la Storia, in fondo, solo una scusa per esibirlo. E forse siamo entrati nell’era di un nuovo barocco, dove l’esibizione dell’artificio genera essa stessa il compiacimento del produttore e il piacere dell’osservatore.
E il “resto”, è superfluo.