Sanremo, prima serata, il quintetto bolognese si dispone con passo incerto sul palco, sulla maglietta di Lodo Guenzi (cantante) il messaggio politico Voglio un gattino. Magliette dalle scritte surreali, occhiali da sole e completi colorati, così si presenta a tutta l’Italia Lo Stato Sociale, che, con qualche incertezza canora che fa chiudere le orecchie ai più scettici, prova a parlare con ironia del tema del lavoro. Questo tema è un filo rosso nei loro lavori, dai primissimi brani (come La 626 del primo EP Welfare Pop) all’album del 2017 Amore, Lavoro e altri miti da sfatare, con brani come Eri più bella come ipotesi.
Una vita in vacanza è un lungo elenco – “Sono così indie che costruisco una carriera sulle canzoni ad elenco”, si prende in giro il gruppo nella versione 2018 della storica Sono così indie –, un elenco dei ruoli sociali più disparati (dal “cameriere”, al “ricco di famiglia”, ai nuovissimi lavori di “motivatore”, “influencer”, “blogger di moda”), neutri e spersonalizzanti, che i cinque ragazzi bolognesi indossano come tante maschere o costumi di carnevale dal sapore grottesco nel videoclip della canzone.
Perché lo fai? Perché non te ne vai una vita in vacanza?
Inneggiare alla vacanza in un paese in cui si rivendica costantemente la mancanza di lavoro, soprattutto per i giovani (a cui più o meno specificamente la canzone si rivolge), sembra quasi un’irriverenza, se ci si arresta in superficie o se si smette di ascoltare – legittimamente – alle prime frasi un po’ stonate. Al contrario, l’idea di una vita in vacanza non è assenteismo, non è fare i mantenuti di mamma e papà, non è non fare “niente di niente”; entra in gioco, parlando di vacanza, la libertà della gratuità.
Una vecchia che balla
tutta la banda che suona e che canta
La gratuità di un gioco, una festa, un dispendio senza ricompense richieste o dirette, l’eccedenza e la sovrabbondanza di fare qualcosa per farlo, per il piacere che se ne trae, perché appassiona, perché il fine è nel fare e – per un attimo – può darsi fuori dalle ricompense.
Anche per quanto riguarda gli studi – che per noi giovani sono un po’ un lavoro – il rapporto tempo-credito, dal liceo all’università, rischia di privare della sua profondità la dimensione dello studio personale, della coltivazione del proprio sé, per sé e per gli altri. C’è il rischio che si perda la voglia di imparare per il piacere di imparare e farsi sfuggire di mano una passione da coltivare e annaffiare come una pianta, lasciando invece che venga schiacciata da un approccio professionalizzante.
Libertà e tempo perso
“Libertà e tempo perso” non è l’inerzia di passare una vita nell’apatia, senza impegno o senza fatica, non è un inno all’indolenza. Con un’immagine: è il piccolo Mario che a dire della mamma o della maestra “perde tempo” perché, magari durante la lezione di matematica o invece di fare i compiti, disegna fumetti sotto il banco. Questo non significa che la lezione di matematica o i compiti a casa non siano importanti – sono importantissimi e probabilmente il nostro Mario dovrà fare il doppio della fatica per recuperarli perché gli serviranno – ma, forse, non è questo il punto.
Si tratta della gratuità del passare una serata con gli amici, della gratuità dell’amore – se le nostre relazioni si basassero su obblighi, doveri, retribuzioni sull’ho passato due ore con te ieri devi passarne due con me oggi, forse questa non sarebbe una vita che varrebbe la pena vivere. Certo, la retribuzione, il reciproco riconoscimento sono necessari e inevitabili in tutti i rapporti che viviamo, ma se tutto si riducesse meramente a questo, la nostra vita stessa ne sarebbe immiserita. Non si ama solo per essere amati, non si vuole bene solo per farsi volere bene, non si coltiva una passione solo per un compenso (un premio, il successo) – sì, certo, anche per questo – ma dietro c’è molto di più. C’è un’eccedenza che guarda a un fine più ampio – qualcuno potrebbe dire la felicità, oppure, più moderatamente, il semplice provare piacere nel fare quello che si fa e lavorare per costruire un futuro in cui volere e dovere, scelta e necessità non sono separati da un abisso, ma si permeano.
In questo senso va inteso il tempo perso, la libertà immensa di poter perdere tempo, di poter buttare via il tempo, fuori dalle logiche della vita come una palestra professionalizzante di costante competizione – per la carriera, le relazioni sociali o quelle sentimentali – e con nessuno che rompe i coglioni, invece di fare a gara a chi è più bravo a vivere.
Nessuno che dice se sbagli sei fuori
Non si tratta di eliminare ogni criterio di giudizio, non è un va bene tutto, è tutto giusto: non è un inferno immorale o a-morale in cui l’errore non esiste e tutto è lecito; si tratta piuttosto di uscire dalla logica dell’errore come condanna.
Il “se sbagli sei fuori” è quello di un quadratino da annerire in un test d’ingresso la cui coloratura è determinante alla riuscita della prova, perché verrà “letto” da un correttore ottico, è un minuto a crocetta, un minuto esatto e non un secondo di più; riguarda la retorica del performativo che permea il mondo della scuola, dell’accademia e del lavoro, un lavoro a cottimo della cultura. La stessa logica dei test a crocette che, dalle prove INVALSI all’università, tentano di inscatolare il sapere, trasformato in un pronto all’uso che diventa di facile consumo. Di qui, la logica utilitaristica che contagia non soltanto le istituzioni, ma la nostra stessa mentalità: da quando ci chiediamo e ci lasciamo chiedere “E quindi? e dopo cosa vuoi fare? Cosa ci fai con questa laurea?” a quando davanti a un prodotto culturale – che sia esso un prodotto artistico, un prodotto del pensiero come un libro o una conferenza – ci domandiamo “A che mi serve?”.
Per carità, non che si possa o si debba acriticamente uscire da questa visione di necessità – necessaria perché, sì, una competenza dovrà pur essere condensata in un titolo e un impegno, una fatica meritano senza riserve una retribuzione adeguata. Ma il senso di tutto questo è che, a volte, semplicemente non è il fatto che “mi serve”, non è l’esperienza da aggiungere al curriculum o il punto non è solo e soltanto quella. (Recita un’altra canzone dello Stato Sociale: “Fare solo esperienze che non vanno su un curriculum”).
Non è un caso che, la sera dei duetti, i cinque ragazzi abbiano scelto di presentarsi sul palco con il Piccolo Coro “Mariele Ventre” dell’Antoniano, inscenando uno sketch con il comico Paolo Rossi sui tempi musicali:
“È un allegro vivace.”
“A me sembra un allegro depresso.”
“Perché sei tu che non ti godi la vita.”
La vacanza non esclude necessariamente il lavoro e il lavoro (tanto quanto lo studio) – quando è dignitoso, quando è gratificante, quando è sicuro, quando è possibile, quando non solo paga ma appaga – può essere congiunto alla vacanza. In questo senso, sì, una vita in vacanza. Con quella libertà impersonata da una vecchia che balla e tutta la banda che suona e che canta, una libertà che solo un coro di bambini riesce a cantare facendone una festa, un inno alla libertà e al tempo perso e soprattutto, uno spazio in cui – per usare la loro metafora – “nessuno buca i palloni, nessuno dice: “Se sbagli, sei fuori””.
“Prendi la tua vita in mano.
Fanne la vacanza più bella che ci sia. E a chi ti dirà che non si può, che le regole sono altre, che bisogna sempre e solo produrre e morire, lascia dire. Sarai già in viaggio a quel punto. Lontano.
Verso un mondo diverso, libertà e tempo perso. E nessuno che rompe i coglioni.
Nessuno che dice se sbagli sei fuori.”