Accadueò Non Potabile perché il primo spettacolo riguardava un episodio di ecomafia e di inquinamento – No, in realtà è perché beviamo solo vino.
Siamo nati nel 2006 come formazione riconosciuta da Ca’ Foscari. Eravamo un gruppo di studenti interessati agli argomenti scomodi, e il teatro ci sembrava il miglior veicolo per portarli alla luce. Dopo un primo spettacolo si sono uniti a noi moltissimi altri cafoscarini, e non solo. Io, ad esempio, ho studiato scienze ambientali, David ha studiato storia ed antropologia, Jacopo filosofia; abbiamo avuto con noi anche studenti di Egart, di architettura… nessuno che avesse una formazione prettamente teatrale alla base. La compagnia è frutto di mille contaminazioni, si è formata lavorando. All’inizio ci siamo concentrati sul tema del linguaggio televisivo, come in Teatro Catodico, uno dei nostri spettacoli più compiuti. Dopo un’eterna ricerca sulle pubblicità storiche degli anni 80 e 90, abbiamo estrapolato tutti gli slogan per creare una sorta di lingua vera e propria che i nostri personaggi dovevano utilizzare in modo esclusivo. Da lì abbiamo sviluppato spettacoli sulle nuove dipendenze da smartphone e social network… lo sapete che in Cina sono sorti i primi centri di disintossicazione da Internet?
Terminata l’università ci siamo ritrovati qua a Venezia, e abbiamo scoperto di essere rimasti per e grazie al teatro. Ed ecco la decisione: dedicarci completamente a questo, diventare poveri fino in fondo. Io adesso lavoro part-time in un ristorante, ma in effetti anche i professionisti devono affiancare altre attività, o no? Il nostro sogno sarebbe di avere Venezia come base per poi spostarci. No, nessuno di noi è veneziano! Io e David siamo friulani, Jacopo è trentino, Caterina è padovana… però ci sentiamo dei “nuovi veneziani”. Perché ci piace Venezia? Con tutte le cacche che ho pestato mentre ero perso a guardare la bellezza che mi circondava… C’è un sommerso di nuovi veneziani che tentano di sostenere la città come quelle grandi mani sul Canal Grande: non sai mai se vogliano sostenerla davvero, o solo afferrarla e trascinarla giù. È difficile fare arte in un posto come questo: ci sono i prezzi, le mille difficoltà, il comune che potrebbe indirizzare meglio i finanziamenti verso queste realtà, ma noi ci proviamo lo stesso.
Tra vent’anni ci vediamo ancora qui, sempre a lavorare con questo gruppo. Magari con qualche acciacco, ma a vivere di solo teatro performativo. Da ragazzo non davo retta al cliché degli integralisti egocentrici che mi ripetevano “faccio teatro perché non riuscirei a fare altro”. Mi piaceva soprattutto il processo creativo, quel mettere insieme tante teste per ottenere un filtro della realtà. In teatro si usa spesso il termine “urgenza”, l’impellenza di comunicare qualcosa; magari un nostro spettacolo non scoprirà l’acqua calda, ma per noi conta il modo in cui riusciamo a trasmettere un messaggio. All’inizio non riuscivo a vederlo come un lavoro, forse perché mi avevano detto che di teatro non si può campare. Poi però, mentre stavo finendo il dottorato, ho avuto una crisi profonda: la consapevolezza che non avrei più fatto teatro, o che non ci avrei potuto dedicare tutto il tempo necessario, mi faceva malissimo. Quindi adesso potrei dirti: faccio teatro perché non so cos’altro potrei fare nella vita.
Un’ultima dichiarazione per la stampa? Per rimanere in questa città lo devi volere davvero, non è ospitale e non riesci a metterci radici molto facilmente. Sono sicuro che se anche voi rimarrete qui sarà perché non potrete fare altrimenti. E non andate a Mestre.
di Greta Baessato
Great Greta
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