Werner Bischof, fotoreporter della resilienza umana

Nel primo appuntamento del nuovo ciclo di “Dicono dell’Arte”, una serie d’incontri con figure di spicco dal mondo dell’arte contemporanea organizzati a San Servolo in occasione della Biennale, il maestro Oliviero Toscani ha aperto la sua presentazione con una sentenza: “Una fotografia – ha dichiarato Toscani – per essere tale deve essere pubblicata”.

Non fu certo della stessa opinione il famoso fotoreporter svizzero Werner Bischof (1916-1954), soggetto della nuova mostra allestita ai Tre Oci della Giudecca. Come ci informa una citazione dell’artista riportata all’ingresso dell’esposizione, l’uso che i media spesso facevano dei suoi scatti era motivo di grande frustrazione per Bischof, che arrivava a sentirsi “come se stess[e] prostituendo il [suo] lavoro”. Del resto, i suoi tentativi di distanziarsi dall’odiata etichetta di “fotoreporter” non bastarono a dissuadere l’Olimpo della fotografia mondiale: nel 1949 Bischof divenne il primo nuovo membro della Magnum Photos, l’agenzia, oggi leggendaria, fondata due anni prima da un gruppo di reporter fra cui spiccavano Robert Capa e Henri Cartier-Bresson.

Su una cosa, di cruciale importanza, il maestro svizzero e il nostrano Toscani si trovano tuttavia in perfetto accordo: che non possa esserci uno scopo ultimo dell’arte che non sia quello di ritrarre la condizione umana. È questa la chiave di lettura principale della mostra ai Tre Oci, che dopo una prima sala in cui sono esposte alcune prove giovanili dell’artista, si apre con i reportage svolti da Bischof in vari paesi europei fra il 1945 e il 1948. Il fotografo, che ha passato gli anni della guerra nella pacifica svizzera, trova un continente che si è autodistrutto dopo sei anni del conflitto più devastante nella storia dell’umanità; è l’Europa degli orfanotrofi sovraffollati e dell’UNRRA; di Rotterdam, Colonia, Varsavia, Budapest e Dresda rase al suolo dai bombardamenti aerei.

Gli scatti dell’artista sono lesti a cogliere il prezzo che la guerra ha inflitto alla popolazione civile. Da un lato vediamo lo shock ancora presente negli occhi della gente comune, vittima del peso della Storia che ha sconvolto le fondazioni economiche e sociali di un intero continente; dall’altro, siamo testimoni di una resilienza umana la cui forza ci colpisce, rendendosi concreta nei massacranti lavori di ricostruzione così come nei giochi dei bambini, che disegnano col gesso sopra le rovine delle città. Lo spettatore è attivamente partecipe sia della fatica sovrumana di un’anziana donna ungherese, che immersa in acqua fino alla vita traina un’imbarcazione durante l’inondazione del fiume Tisza, sia del piacevole momento di relax di un giovane lavoratore tedesco, che si riposa sdraiato all’interno di una carriola con sigaro in bocca e gambe all’aria. Di fronte a lui, sullo sfondo, lo scheletro annerito del Reichstag di Berlino.

Nonostante Bischof scompaia tragicamente nel 1954 in un incidente stradale sulle Ande Peruviane, il ritmo serrato degli ultimi anni della sua vita, riportati fedelmente dall’esposizione, ha consegnato alla storia un artista di immensa versatilità e vitalità. Dal 1951 al 1954 il fotografo si sposta prima in estremo Oriente, dove rimane affascinato dalla cultura, dalla natura e dai cerimoniali del Giappone. Il rapporto a tutto tondo con il paese dei samurai emerge dalla sua produzione di foto, che hanno per soggetto le persone, ma anche i paesaggi e gli oggetti di tutti i giorni. Non è un caso, fra l’altro, che proprio nella sezione giapponese vi sia l’unica foto presente in mostra che ritrae una figura politica di rilievo, ovvero l’imperatore Hirohito.

Dal Giappone, Bischof viene incaricato di immortalare la vicina guerra in Corea, durante la quale rimane fedele al suo scopo di rendere soprattutto la dimensione umana del conflitto. Le ideologie che muovono gli eserciti opposti sono solo una comparsa in mezzo agli scatti dei prigionieri di guerra o delle evacuazioni dai villaggi. Bischof non nasconde una certa apatia verso la dimensione politica, intitolando l’immagine di una scritta su una porta, nella quale l’esercito alleato è accusato di obbedire agli ordini di Wall Street, semplicemente: “Graffiti”.

La mostra segue poi l’artista attraverso i viaggi e reportage svolti fra un’Indocina che sogna l’indipendenza, un’India che affronta una terribile carestia, e infine le Americhe. Prima gli USA, da cui Bischof non ricava una buona impressione delle dinamiche città industriali (New York, in particolare, è definita “un luogo terribilmente egoista”), poi l’America Latina, dove vengono realizzati indimenticabili scatti in particolare nei villaggi di montagna Peruviani e Messicani.

Come definire, quindi, il Werner Bischof che ci viene presentato ai Tre Oci? Un instancabile fotoreporter di accusa e consapevolezza sociale? Oppure un artista impegnato in una tenace ricerca della resistenza dello spirito umano nelle situazioni più impervie? È probabilmente la verità nel mezzo di questi due approcci che fa sì che un senso d’impotenza non ci assalga all’uscita della mostra. Gli scatti dello svizzero mostrano ciò che ci accomuna, rendendo quasi scontato che non vi sia differenza fra la miseria nei volti dei polacchi, degli indiani o dei coreani, così come si fa fatica a trovare distinzioni fra i momenti di felicità infantile del Giappone e del Sud-Italia. Né le similitudini sono ridotte all’ambito geografico. Mentre scrutano verso il luogo d’origine di un rumore appena sentito, la preoccupazione è palpabile negli occhi del soldato indocinese così come nel volto del suo prigioniero di guerra inginocchiato.

Se fosse vissuto più a lungo, Bischof avrebbe potuto toccare con mano il ruolo avuto dalle immagini strazianti della guerra in Vietnam nel mutamento dell’opinione pubblica occidentale. Sarebbe stato quello l’inizio di una copertura mediatica dei conflitti più attenta ai dettagli, in particolare quelli riguardanti le popolazioni civili di cui Bischof volle farsi portavoce. Avrebbe inoltre visto le dinamiche politiche di cui aveva immortalato le origini diventare realtà globali quali la Guerra Fredda, la Decolonizzazione, il Terzomondismo rivoluzionario. Ma questo, probabilmente, non gli sarebbe interessato.

 

 

Di Arturo Gorup de Besanez

 

 

 

 

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