In principio fu Colin Kaepernick. Era il 26 agosto 2016 e, durante la tradizionale esecuzione dell’inno americano prima dell’amichevole contro i Green Bay Packers, l’allora quaterback dei San Francisco 49ers era rimasto seduto in panchina. Un gesto plateale per denunciare un “paese che opprime i neri e le minoranze etniche”, un paese che era già stato scosso tra il 2014 e il 2015 dalle proteste di Ferguson e dagli omicidi di Michael Brown ed Eric Garner. Un gesto così plateale da costargli la carriera – attualmente è free agent, il termine tecnico per indicare un giocatore senza squadra – e da sollevare innumerevoli critiche, dalle maglie bruciate dai tifosi all’etichetta di giocatore più odiato della Lega. Non tardò ad arrivare la critica aperta del candidato Repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, che gli suggerì di “trovare un paese che gli piace di più”.
Un anno e un mese dopo è lo stesso The Donald, ora eletto presidente degli Stati Uniti, a riuscire a dare alla protesta di Kaepernick più “covfefe” di quanta non ne abbia mai avuta prima. In un infuocato tweet, mezzo di comunicazione preferito del POTUS, Trump ha candidamente augurato ai “figli di puttana” rei di inginocchiarsi durante l’inno di essere licenziati, innescando il più classico degli effetti Streisand. La NFL, infatti, non l’ha presa propriamente bene, così tutte le squadre hanno messo in scena la propria denuncia, tutti in ginocchio, l’uno abbracciato all’altro, dai giocatori ai proprietari dei club.
La protesta ha superato i confini non solo del football – il 23 settembre Bruce Maxwell degli Oakland Athletics è stato il primo giocatore di baseball a ricalcare il gesto di Kaepernick – ma anche dello sport. Negli ultimi giorni ad inginocchiarsi sono stati anche Eddie Vedder e Stevie Wonder. Kaepernick avrà sacrificato la propria carriera, ma è riuscito a portare la propria protesta e i suoi contenuti al centro del dibattito pubblico. In fin dei conti, ha vinto.








