Una vecchia gloria del calcio italiano è tornata nella serie cadetta, e le ambizioni della dirigenza sembrano puntare ancora più in là. Dove può arrivare davvero il Venezia, dopo una lunga odissea di fallimenti e sacrifici?
Chiunque abbia visitato almeno una volta la città Venezia può dire di conoscere con certezza il vero significato della parola unicità. Perché sulla laguna tutto è singolarmente complicato, e persino le banalità di ogni giorno si caricano di significati superiori. Sulle isole umide dove persino vivere e lavorare risulta uno sforzo eroico, è semplicemente ridicolo pensare che il calcio sia soltanto uno sport come tanti.
Il Venezia Calcio è una delle squadre più antiche d’Italia, con una storia fatta di miseria e nobiltà. Dopo tanti anni di incertezze, fatiche e fallimenti, la squadra (allenata da Filippo Inzaghi) ha coronato una stagione pressoché perfetta, vincendo il campionato di Lega Pro con tre giornate d’anticipo e la Coppa Italia di categoria. Per celebrare i trionfi, i giocatori e i dirigenti del Venezia si sono concessi una passerella unica: la traversata del Canal Grande in gondola, scortando le Coppe vinte come fossero reliquie di tempi ormai andati, ammirandole come fossero la quadriga rubata a Bisanzio otto secoli fa. Mentre la società veneziana attraversava la via principale della città, sulle sponde del Canale comparivano manipoli di tifosi e centinaia di turisti incuriositi. Nell’aria, si respirava un’aria nuova, insolita: sapeva di consapevolezza, riscoperta, di senso d’orgoglio, di liberazione.
La provincia veneziana vive di calcio, ed è forse tra le più appassionate d’Italia. Per molti anni, la catabasi del Venezia è stata vissuta come una maledizione, un terribile sospiro eterno. Com’è possibile, ci si chiedeva, che una delle città più belle e importanti al mondo non riesca ad avere una squadra di calcio solida, al riparo dagli illeciti amministrativi, e soprattutto militante nella massima serie? Ci hanno provato tutti: Zamparini, i fratelli Poletti, uno strano imprenditore anglo-iraniano, e persino un ex colonnello dell’Impero Sovietico. In tanti hanno cercato di riportare il leone di San Marco in Serie A, tra la madonnina di Milano e le aquile di Roma. Ma nessuno ci era mai riuscito, e, dopo quindici anni, le sconfitte avevano assunto la corporeità della dannazione.
Oggi festeggiamo la promozione del Venezia Football Club in Serie B. E chissà, forse l’anno prossimo gli arancio-nero-verdi potranno giocarsi un posto per la massima serie. Ma per comprendere la dimensione reale dell’impresa che è stata compiuta – a livello dirigenziale, finanziario e solo per ultimo calcistico – bisogna partire da lontano. Perché il calcio, come molte altre cose a Venezia, è fatto di fallimenti e risalite; perché forse l’animale mitologico della città non dovrebbe essere il leone alato, ma piuttosto la fenice.
Quando Joe Tacopina prese le redini del Venezia Football Club, si scoprì imperatore di un mucchio di rovine. Sulla città aleggiava l’ombra delle imprese sportive di inizio millennio, quando la squadra di Recoba e Maniero militava in Serie A e si toglieva qualche soddisfazione battendo Inter e Fiorentina. Era il 6 ottobre 2015 quando “gli americani”, la cordata di Tacopina sbarcata sulla laguna, annunciarono di avere grandi progetti per Venezia. Come al solito, nessuno diede troppo peso a quelle dichiarazioni. La gente s’era ormai assuefatta alle promesse vuote della dirigenza, e i tifosi non si fidavano troppo dell’ennesimo investitore straniero.
Furono i fatti, però, a smentire e confermare in maniera perentoria. Ripartito dalla serie D, il Venezia vinse immediatamente il campionato dopo un testa a testa estenuante con il Campodarsego. L’anno successivo – la stagione che si avvia ora alla conclusione – ha invece segnato la svolta nella storia pluricentenaria di questo Club, con il double e lo storico ritorno in Serie B.
Gli americani, ora, fanno sul serio. E i veneziani sembrano capirlo. Tacopina porta a Venezia un allenatore che ha un curriculum di tutto rispetto: Filippo Inzaghi, campione della Juventus e del Milan, salito sul tetto del mondo nell’indimenticabile estate del 2006. L’ex attaccante, reduce da una stagione piuttosto deludente sulla panchina Milan, scende sino alla terza serie a patto di avere una squadra ultra-competitiva e di potersi inserire in un progetto ad alto potenziale. In estate, il Venezia piazza dei colpi sensazionali, come Maurizio Domizzi (ex Udinese), Marco Modolo (ex Parma, Pro Vercelli e Carpi) e Simone Bentivoglio (ex Sampdoria e Chievo); si cercano uomini d’esperienza, provenienti dalle categorie superiori, che possano amalgamarsi con un gruppo giovane e talentuoso.
Chiaramente, i lagunari sono una corazzata e gli addetti ai lavori li danno per favoriti. Tuttavia, il loro girone di Lega Pro è tutt’altro che semplice. Altre tre squadre si contendono l’accesso diretto alla serie cadetta: sono il Parma (altra leggenda del calcio italiano in lenta risalita), i cugini e l’outsider Pordenone, anch’essa di recente ammessa nella terza serie dopo molti anni nel semiprofessionismo.
In campionato, la lotta è serratissima; verso la fine, soltanto il Venezia mantiene una media punti eccezionale e riesce a trionfare, bissando poi il successo con la Coppa Italia di categoria. Dopo tanti, troppi anni di assenza, il Venezia torna nella serie cadetta. I veneziani l’hanno capito: finalmente, alla testa della loro amatissima squadra, c’è una buona dirigenza. La maledizione forse c’è ancora; lo spettro del fallimento resterà ancora un po’; ma l’aria s’è fatta più leggera, il sole è ricomparso. Forse, sognare è di nuovo lecito. Il mercato estivo ci dirà fino a dove potrà spingersi la squadra sul campo dei cadetti; nel frattempo, fuori dal rettangolo verde, “gli americani” stanno già dribblando tutti gli ostacoli e sono pronti a fare gol.
Tacopina – come molti prima di lui – è stato molto chiaro: Venezia merita una cittadella sportiva. Costruirla tra i canali sarebbe praticamente impossibile: c’è a malapena spazio per lo Stadio “Luigi Penzo”, il secondo più vecchio d’Italia, e le associazioni culturali di tutto il mondo avrebbero probabilmente qualcosa da ridire di fronte alla remota possibilità di demolizione di un intero sestiere. Lo stadio, ali di cera di un Icaro calcistico che stenta a volare: il Venezia non è pensabile come squadra moderna senza un impianto altrettanto moderno, e Tacopina, ovviamente, lo sa. Zamparini, a suo tempo, venne ferocemente ostracizzato e gli impedirono di costruire un complesso a sue spese; ora si sta pensando a Tessera, dove si trova l’aeroporto. Si progetta, si costruisce. E questa volta c’è qualcosa di diverso, di concreto. Perché gli imprenditori che arrivano da oltre oceano portano con sé una vera e propria rivoluzione copernicana nel business sportivo: al centro non c’è più la squadra, ma il profitto economico. Il rapporto, piaccia o no, si è invertito: i soldi non servono per far grande la squadra, ma la squadra serve per fare ancora più soldi. Questa è la grande verità che si nasconde dietro alla parola “progettazione”, terminus horribilis che sta facendo discutere tutti i grandi pensatori del calcio nostrano. Basti pensare a quanto è controverso il caso del Red Bull Lipsia, squadra letteralmente inventata cinque anni fa, che con una cultura dell’investimento economico si è guadagnata l’accesso in Champions League; o ancora al Sassuolo, che ha legato il suo destino ad un’azienda, la Mapei, che ha portato i colori nero-verdi sino in Europa League. Ebbene, se la “progettazione” sembra anticipare il futuro del calcio, Venezia per una volta non sarà colta impreparata. Forse la città ha riscoperto la sua vecchia indole mercantile, forse è pronta a ritrovare la ricchezza nel XXI secolo. Tutto passa e sarà deciso dal calcio.
Ma passiamo oltre, allontaniamoci per un attimo dai fatti e dalle fredde nozioni statistiche. Parliamo dell’effetto che il Venezia, questo nuovo Venezia risorto dalle sue ceneri, sta producendo su tutta la laguna. Lo stadio, il Penzo, è sempre pieno; centinaia di universitari e lavoratori riempiono i suoi spalti di ferro. Sui social, gli account della squadra sono davvero attivi e testimoniano una grande cura strategica da parte della dirigenza. Il football club sta cercando di fare qualsiasi cosa pur di avvicinarsi alla città, di toccare il cuore aritmico dei tifosi veneziani, ancora scettici e diffidenti. Gli arancio-nero-verdi guidati da Joe Tacopina si sono trasformati in una legione con un compito quasi sacro: ridare un’anima a Venezia. Rinvigorire lo spirito di una città sofferente.
Venezia sta affrontando una delle crisi più gravi della sua storia. Spopolata, invasa dai turisti, trasformata in un albergo-museo, Venezia ha bisogno di un simbolo, di un leone attorno a cui radunarsi e farsi coraggio. La città ha bisogno di ritrovare l’antico orgoglio, di rinascere con fierezza, come ha sempre fatto. E chissà, forse questa volta toccherà al calcio. Nel lontano 1907, quando i fondatori del Foot Ball Club (sic) tracciavano le linee bianche nella pineta di Sant’Elena per giocare a calcio, non potevano immaginare il futuro della loro città. Forse, non potevano neppure azzardare che un giorno un italo-americano col fiuto per gli affari avrebbe trasformato il calcio, il loro calcio, nell’ultima speranza di una città senza più identità.
Venezia sta morendo, è vero ed è innegabile: lo dicono gli universitari, lo dicono i geologi, lo dicono gli esperti di storia dell’arte. Ma, si sa, Venezia è unica. Ha fatto dell’unicità la propria caratteristica ineguagliabile. Venezia è una realtà magica, e il suo teatro più importante, guarda caso, si chiama Fenice. Qui nulla accade mai per caso; e forse anche il lungo anonimato del Venezia Calcio troverà, un giorno, la sua spiegazione. Nel frattempo, i veneziani si godono la promozione e i nostalgici sperano per il meglio. L’anno prossimo, chissà, forse racconteremo il lieto fine di questa storia. E allora parleremo di una nuova Venezia, di una nuova laguna, di una nuova città.
di Federico Sessolo