Ricordate: qui a Dheisheh camp, vi trovate nel luogo più pericoloso della Palestina.
Ma davvero?
Oh, sì. Almeno stando a quanto sostiene l’esercito israeliano.
A. pare un grillo parlante dal sorriso infinito. Sghignazza di gusto, continuamente, e ci travolge con valanghe di aneddoti e informazioni. Si infila tra di me e R. appena mettiamo piede dentro l’Ibdaa Cultural Center. Ci tiene a darci un caloroso benvenuto, e ad essere sinceri gli riesce splendidamente. Subito decreta che deve portarci a spasso per il campo. Io sono nato qui, racconta, e mentre parla gesticola con quelle zampette agitate che non frenano l’entusiasmo. Non capisco da dove arriva tutto sto nervo, sta energia.
E perché questo dovrebbe essere il posto più pericoloso della Palestina?
Perché qui la gente è molto politicizzata. Nessuno guarda se tu sei cristiano, ebreo o musulmano. Qui la gente vive e lotta solo per poter tornare a casa sua.
Casa sua?
Esattamente. Di là del muro, dov’era casa nostra prima del ’48. Qui alla gente interessa solo quello, per questo i militari hanno paura. Vengono qui due volte a settimana. Se stanotte sentite le esplosioni, state tranquilli: sono loro con le granate assordanti.
Vedrò di stare tranquillo, penso.
Entrano nel campo, buttano giù qualche porta, prendono qualcuno e poi se ne vanno. Fanno le esercitazioni per le reclute, così. Mah, ma comunque li vedi, li vedi che son spaventatissimi quei fioi. Hanno solo il mitra e la divisa che gli dà aria, a loro, per il resto sono ragazzi che vengono mandati qua a caso. Fanno l’esercitazione, imparano il mestiere, tornano a casa.
Chi è che prendono?
Arrestano qualcuno, lo portano in carcere, squilla A. e continua, ne abbiamo qualcuno che sta in una qualche prigione israeliana da più di due anni.
Dovrebbero cercare di capire il nostro punto di vista. Cioè, è il minimo se si vuole una pace.
E qual è il vostro punto di vista?
Loro ci chiamano terroristi. Vengono a fare i raid in questo campo perché dicono, oh, là ci sono i terroristi e dobbiamo andare a pigliarli per il coppino. Allora, prima di tutto, il nostro punto di vista non è il punto di vista dei terroristi.
E che punto di vista è?, insisto.
Devi partire a monte, se vuoi sciogliere il nodo e capire il problema. Tiriamo le pietre? Sì, certo che le tiriamo, A. mi indica una foto sbiadita appesa sopra la scrivania della reception dell’Ibdaa. Ritrae un fiol che avrà avuto poco più di una decina d’anni. Vedi quella foto?, chiede, ecco: avevo tredici anni e stavo tornando da scuola. Tornavo da scuola assieme a lui, che si chiamava B. Sapevamo che c’erano i soldati vicino, ma noi stavamo tornando da scuola, mica facevamo qualcosa di male. E poi, sono serio, mentre camminavamo B. è caduto e io sono rimasto a schiaffeggiarlo per un quarto d’ora. Credevo che stesse scherzando. Alzati, B., alzati! Non fare l’idiota! E lo schiaffeggiavo. Ho capito dopo che ci avevano sparato. E lui era già morto però.
A. ci pianta gli occhi negli occhi, il sorriso infinito non gli si spegne mai. Ho tirato le pietre?, sì che ho tirato le pietre, cos’altro puoi fare quando sei un ragazzo? Ma perché loro non capiscono il problema a monte, invece di chiamarci terroristi?