Riprendo la mia delirante rassegna cinematografica tralasciando la trilogia “Europa” (la prima) per non rendere questa serie di articoli ancora più celebrativa di quanto già è e passando ai capolavori che hanno diffuso al massimo la follia ossessiva della nostra povera anima in pena. Si tratta di Dogville (2003) e Manderlay (2005), i due pilastri della trilogia incompleta “USA: terra delle opportunità”, che vedono come protagonista la stessa donna, un’idealista ferrea che viaggia per l’America degli anni ’30, i cui sani principi vengono demoliti dal succedersi degli eventi fino a costringerla ad abbandonare la strada della moralità.

Parlerò brevemente del primo film, perché Grace è interpretata dalla Kidman che mi sta più simpatica della sconosciuta che la sostituirà nel secondo (Nicole dopo le riprese ha dichiarato che non avrebbe mai più lavorato con von Trier perché il film l’aveva “molto turbata”). Oltre a questo imprescindibile criterio personale, la mia scelta è dovuta anche al fatto che Dogville è effettivamente il più famoso dei due e forse il più iconico di un genere cinematografico (a cui appartiene comunque anche Manderlay) che a mio avviso è quasi unico. L’intera pellicola è infatti girata in una sorta di set teatrale con tanto di appunti scenografici e mostra con una lucidità devastante la cattiveria, l’umiliazione e la vanità umana. Nicole Kidman sfonda lo schermo interpretando una giovane indifesa in fuga da un passato misterioso che, pensando di nascondersi in una cittadina tranquilla (Dogville appunto), va incontro a un destino amarissimo: gli abitanti si approfitteranno della sua gratitudine e la renderanno a poco a poco una schiava.
Ciò che è interessante sottolineare è come la morale umana sia facilmente manipolabile quando si tratta di temi quali la schiavitù, nei cui riguardi ci sembra di avere principi saldissimi. Von Trier non solo mette a dura prova l’idealismo e i valori etici della protagonista, ma svela anche l’ipocrisia di un genere animale, quello umano, che ha radici inestirpabili! Gli abitanti della cittadina di Dogville, infatti, si presentano e si vantano di essere misericordiosi salvatori, degni di lode e riconoscenza addirittura, ma dietro al loro finto perbenismo si nasconde un feroce desiderio di sopraffazione: Grace, per sdebitarsi della protezione della città, si offre volontaria per svolgere una serie di lavoretti per ciascun membro della comunità, la quale tuttavia inizierà a sfruttarla violentemente fino a giungere allo stupro, all’umiliazione e al sequestro. D’altro canto anche la sua morale di donna che ha fiducia nell’umanità si troverà davanti a un bivio terrificante: gli uomini della città possono redimersi o sono del tutto imperdonabili?

Bel mattone direte voi, ma in realtà il vero obbiettivo di questi film è quello di sconvolgere lo spettatore nel più profondo del suo essere, andare a toccare quelle corde che spesso ci fanno dubitare di noi stessi. Quindi sì, dopo averli visti preparatevi a sentirvi appesantiti come alla fine di un pranzo di Pasqua, ma sappiate che la noia è fuori discussione: tutta quella violenza, tutto quel turbamento con cui il regista cerca di toccare quelle corde, non sono gratuiti, ma rivestono un ruolo importante nel farvi tenere gli occhi incollati allo schermo. Io credo che Von Trier giochi molto con le pulsioni distruttive e “dionisiache” dell’animo umano, che voglia darci una scossa utilizzando il nostro “Thanatos” (Freud è ovunque, anche nelle parole crociate, quindi non sto facendo la pretenziosa), quell’oscurità che fa parte di noi ma che tendiamo a reprimere e a dimenticare, e turbandoci in quel modo non fa altro che presentarci schiettamente la realtà che ci spaventa.
Martina Barnaba