Premio Strega 2024: Il fuoco invisibile di Daniele Rielli

“Una cosa che ho notato del Salento è che è stra arido”.

Sono queste le parole che ho sentito pronunciare, per quella strana qualità di intrecci propria delle trame del destino, pochi minuti prima che mi fosse messo tra le mani questo libro. 

Parole dure e desolanti almeno quanto il paesaggio che descrivono: dure perché parlano del luogo che chiamo casa e desolanti perché sono vere. 

Intendiamoci, i paesaggi salentini sono meravigliosi, un mare verde-argento di chiome di ulivi che si estende a perdita d’occhio fino al mare. Chiunque li ricordi però (che sia in prima persona o attraverso quella memoria di “seconda mano” che strappiamo ai racconti altrui) non può che piangerne la distruzione. 

Questa distruzione ha un nome: Xylella fastidiosa, responsabile della trasformazione in “cimitero vegetale” della campagna salentina, avendo provocato la morte di circa 21 milioni di piante d’ulivo. È un patogeno batterico delle piante e il suo arrivo in Salento, ormai risalente a un decennio fa, è raccontato da Daniele Rielli nel suo ultimo libro, Il fuoco invisibile

Il titolo è particolarmente icastico, e racchiude in sé in maniera molto evocativa gli elementi  che si andranno a sviluppare nel corso della storia. In primis il fuoco, rappresentazione metaforica del pericolo che incombe (un fuoco indefinito e apparentemente indefinibile che sta bruciando gli ulivi) ma anche rappresentazione di quel sentimento indistinto ma percepibile che infiamma gli animi dei protagonisti. Accanto al fuoco figura questa sua bizzarra proprietà di essere invisibile, data sia dall’assenza di reali fiamme che divampano nel cielo e che ne segnalano inconfutabilmente la presenza, sia dall’apparente cecità che sembra si sia diffusa nella popolazione, che preferisce non vedere ciò che arde nella linfa dei suoi alberi fino a prosciugarla e che non segue le direttive emanate per il controllo del batterio. 

Ancora più azzeccato però, se possibile, è il sottotitolo: Storia umana di un disastro naturale

Quella descritta in questo libro non è infatti la mera cronaca fitosanitaria sulla diffusione del batterio Xylella fastidiosa nel Salento e delle conseguenze che ha avuto sul territorio dal punto di vista agro-paesaggistico. La storia che si dipana pagina dopo pagina è straziantemente umana, decisamente più di quanto ci si possa aspettare da un libro il cui tema centrale ruota attorno al batterio che causa il disseccamento degli ulivi.

È umana perché umani sono i suoi protagonisti. Rielli tappezza il libro con i resoconti di quasi dieci anni di interviste e incontri tête-à-tête avuti con le persone che hanno vissuto sulla propria pelle l’arrivo, e la permanenza, del batterio: dal team di scienziati del CNR di Bari (che per primo ha individuato la causa dei disseccamenti e si è trovato a dover portare avanti una battaglia di anni per convincere autorità locali e cittadini delle misure necessarie a fermare il contagio) ai gruppi negazionisti e alle loro teorie complottiste; dai magistrati coinvolti nei vari processi giudiziari ai giornalisti e ricercatori esteri arrivati in Salento per raccontare quella stessa storia; dai piccoli proprietari terrieri che per diletto coltivano il proprio pezzo di terra agli olivicoltori di professione in cerca di metodi innovativi per ottenere l’olio migliore. 

Tutti questi personaggi si susseguono in una danza frenetica ma metodica che si apre proprio con il gruppo di scienziati baresi incaricati di trovare la risposta alla domanda che in quel periodo è sulla bocca di tutti, dai vecchietti al bar di paese ai bambini che giocano a pallone per strada: che cosa fa morire i nostri ulivi? Gli scienziati continuano il loro compito incessante di “strappare pezzettini di verità alla natura”, fino ad arrivare ad isolare il patogeno responsabile dei disseccamenti: Xylella fastidiosa. Una volta individuato il problema, però, si trovano a dover affrontare un nemico se possibile ancora più insidioso del batterio: il negazionismo e l’ostruzionismo di alcune frange di popolazione, inclusi politici, amministratori e magistrati.

Questo scetticismo, o meglio questi scetticismi, sono dettati in parte dai protocolli necessari per il contrasto al batterio (ovvero l’abbattimento dell’albero infetto e di quelli nelle sue vicinanze), percepiti come inutilmente draconiani, e in parte da un’umanissima resistenza al cambiamento, dalla paura per ciò che non si conosce e non si capisce, dal terrore provato dinanzi a fatti che sconvolgono il placido ritmo naturale della vita consueta, sostituendo a certezze consolidate dei punti di domanda.

È proprio questa paura primordiale ad essere la vera protagonista del libro: è la paura che nasce quando i miti e le narrazioni a cui ci siamo aggrappati per tutta la vita all’improvviso vengono a mancare, scardinati da eventi che minacciano la nostra stabilità perché minacciano la nostra visione e comprensione del mondo. Le storie sono il collante delle comunità umane, aiutano a definire i confini della realtà e ad orientarsi; quando queste storie vengono a mancare, rischia di cadere l’intera struttura che vi si reggeva.

In questo caso, il mito è quello dell’ulivo come pianta autosufficiente e benigna, vegliarda dei bisogni dell’uomo, presente sul territorio da tempo immemore, dispensatrice di buon olio e indistruttibile. Quando questo mito crolla con l’avvento di Xylella, con lui crollano anche molti dei personaggi che popolano questa storia, ed è per questa ragione che neppure i personaggi più testardi, più cocciuti e inamovibili riescono a farsi odiare: li vediamo per quello che sono, uomini e donne spaventati dalla prospettiva di dover perdere il lavoro che ha dato forma e senso alla loro vita. 

In una delle scene più toccanti del libro, Francesco, un contadino ultraottantenne, porta Rielli e un suo amico in giro per la campagna e, fermandosi di fronte a un piccolo appezzamento dove si iniziano a vedere i primi disseccamenti sulle piante, che quindi rischiano di dover essere tutte espiantate, esclama: “se mi toccano quella zona mi toccano il cuore, ho speso una vita ho speso” e scoppia in lacrime. 

Le lacrime di Francesco sono le lacrime di una terra straziata, ma non sono lacrime di sconfitta o rassegnazione. Il libro infatti si conclude con uno scambio di battute tra l’autore e il padre, che reitera la volontà di continuare a piantare ulivi, di continuare a contribuire al ciclo vitale e di poterlo vedere, di poterne far parte. Una stagione dopo l’altra. 

di Gaia Paturzo

Crediti immagine di copertina: Lost Roots, fotografia di Filippo Ferraro

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