Terre senza ponti

IN PRIMA LINEA

Inizio agosto, Torino-Harmanli. Un bus, un aereo, poi un treno: ci vogliono meno di 24 ore per fare questi 1800 chilometri che separano l’Italia dalla Bulgaria, il centro dell’Europa da uno dei suoi margini più remoti. Per noi, almeno, che in mano abbiamo uno dei passaporti più forti al mondo. Per fare quello stesso tragitto in direzione opposta qualcunə ci mette mesi, a volte anni. Dalla Bulgaria si va in Serbia, poi in Bosnia-Herzegovina o in Ungheria, poi ancora, attraverso qualche confine a piedi, verso l’Italia, la Francia, la Germania. Prima c’è la Turchia, prima ancora la Siria, l’Afghanistan, il Marocco. Per le persone migranti che provano il game lungo la rotta balcanica la lunghezza e la difficoltà del viaggio sono determinate dal colore della pelle e dal paese di provenienza1. Nemmeno parole come economic crisis o refugee spesso sono sufficienti per garantire il passaggio: è sempre chi sta dentro ai palazzi di Bruxelles e di Strasburgo che decreta, spesso arbitrariamente, chi può moversi e come, quale situazione valga un corridoio umanitario, su quali gruppi di persone valga la pena investire. Sovradeterminazione: l’Unione Europea si avvale della legittimità di decidere per altrə se e come muoversi, se esiste la possibilità stessa di muoversi. Lungo quei 1800 chilometri si svelano tutte le contraddizioni di un’Europa che si fa promotrice dei diritti umani ma che non esita a negarli a chi nasce nel posto sbagliato e, nel tentativo di raggiungerli, viene respinto con violenza e sistematicità.

Pochi giorni dopo, il nostro passaporto forte ci permette di spingerci ancora un po’ più in là e di attraversare in direzione opposta a quella della rotta un altro confine: siamo in Turchia. Passiamo il valico in frontiera, ci muoviamo di pochi chilometri a Est lungo il confine e ora tra noi e la Bulgaria c’è un muro di filo spinato. Appoggiato in cima un guanto, segno inequivocabile che quel muro le persone in movimento lo bucano, lo attraversano, lo scavalcano. Provano forme di resistenza a quella sovradeterminazione tutta nostra in cui non si riconoscono ma che pure ne delinea le vite. Allo stesso tempo, quel doppio filo spinato è la prova tangibile dell’invenzione del dispositivo confine: senza la linea tracciata dagli stati qui ci sarebbe solo una collina e quelle mucche che vediamo pascolare in lontananza.

Oltre al filo spinato, su quel confine, c’è un muro di polizia: a proteggere le linee di frontiera lungo i Balcani infatti sono dispiegate forze militari di vario tipo, finanziate dall’Unione Europea per rendere più difficile – per impedire, se possibile – il passaggio ai corpi che ritiene illegittimi. Tornando verso Harmanli dalla Turchia ne incontriamo qualcuna: border police, Frontex, la gendarmerie, l’esercito, armate di manganelli e cani addestrati a mordere2. Viaggiano lungo la Route 79, una superstrada che corre parallela al confine verso Sofia e che diventa per questo un luogo cruciale di passaggio per le persone migranti. Per un attimo le immaginiamo, dall’altra parte del filo spinato, nei boschi radi dove poco prima eravamo anche noi, prepararsi a provare a scavalcare la rete. È come una partita a Risiko, con regole già scritte, tra due forze asimmetriche: si vince o si perde per un tiro di dadi. 

Qualcuno ci prova decine di volte prima di riuscire a passare. Qualcuno, su quella frontiera – per quella frontiera – muore. L’indifferenza con cui queste morti al confine vengono trattate dalle istituzioni europee diventa un’arma di controllo dei flussi in ingresso, al pari della violenza al confine. Nei boschi della Bulgaria si cammina sui corpi di chi ha tentato il passaggio prima: la morte è spogliata di ogni sacralità, brutalmente normalizzata, rientra nel corollario di rischi di chi prova ad attraversare il confine in mancanza di alternative legali. Che postura, individuale e collettiva, si prende davanti alla morte? Per noi, se l’illegalità è costruita politicamente, allora la morte al confine non può essere liquidata come un fatto di natura, e di fronte alle storie di chi dall’Europa rimane fuori, la risposta arriva dalle viscere e prende forma a partire da una rabbia che forte dice: non si dovrebbe morire per un viaggio. Se i nostri confini uccidono, allora quei confini bisogna cancellarli. 

La rabbia prende ancora più forza quando pensiamo alla nostra esperienza recente di mondo, segnata costitutivamente da esperienze di ultramobilità: un erasmus ad Amsterdam, uno a Parigi, e la vita dentro ad un’istituzione – l’università – che della spinta all’internazionalizzazione fa uno dei suoi pilastri. E forse è difficile per noi – generazione della free mobility europea all’interno dell’area Schengen – concepire il viaggio come un rischio e pensare che quello stesso ente che finanzia la mobilità internazionale è lo stesso che impedisce con tutta la sua forza ad altrə di fare lo stesso. Non inventiamo niente, se parliamo di fortezza Europa, eppure crediamo che sia un’immagine che parla da sè: dentro, uno spazio dove la libertà di movimento per lə cittadinə è garantito e incentivato, fuori, muri costruiti per proteggerlo da chi è indesiderabile. Davanti a questo doppio standard, lo stridere della retorica dell’universalismo europeo si fa più evidente e si sgretola nella sua ipocrisia. Non si può parlare di libertà di movimento finchè non lo sarà per chiunque.

  1.  Il termine game – il gioco – è usato dalle persone migranti per indicare il loro viaggio lungo la rotta balcanica, e in particolare i tentativi di attraversamento dei confini via terra. 
    ↩︎
  2.   La gendarmerie è una forza statale intermedia tra esercito e polizia. 
    ↩︎

di Teresa Ferraresi e Silvia Ruggeri

Foto del Collettivo Rotte Balcaniche

Foto di Silvia Ruggeri

Report Torchlight, Collettivo Rotte Balcaniche

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