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Qualche anno fa, in un testo intitolato presentimento, scrissi una frase lapidaria, che per me è forse la madre di tutte le frasi lapidarie, soprattutto perché bugiarda (in realtà qualunque frase lapidaria o semplicemente assertiva mi è sempre sembrata falsa o comunque suscettibile di correzione): Non intendo raccontare la storia della mia famiglia. Da quel giorno, raccontare la storia della mia famiglia diventò il mio desiderio più grande. Quindi era già uno dei miei desideri più grandi, ma non ne ero consapevole, non volevo ammetterlo o non volevo accettarlo. Dal momento in cui scrissi il contrario, non potrei più negarlo.
Fin dall’inizio le regole del gioco sono chiare. C’è un peso del quale ci si vuole liberare, c’è una Torino da attraversare seguendo i quadranti di una scacchiera, e ad ogni casella è obbligatorio fermarsi, cercare di raggiungere la leggerezza.
Andrea Canobbio continua a ripetere che lui proprio non vuole scrivere il libro che teniamo tra le mani. Lo si asseconda per inerzia, attraverso le 504 pagine di memorie nelle quali si ostina a dire che mai riuscirà a completare un libro sulla sua famiglia. E’ una affermazione che invecchia dopo poche pagine, mentre accompagna il lettore in un giro precisissimo di Torino, approfittando del silenzio di chi legge; del silenzio del vero protagonista della ricerca.
Torino è lo sfondo delle vicende familiari dei genitori di Andrea Canobbio. I due si sposano nel dopoguerra, danno vita a tre figli, l’ultimo dei quali l’autore. Il padre è geometra, e sulla scia di questo il libro parlerà – tanto – di case, di fondamenta, di facciate. Il padre è depresso, e perciò il libro parlerà di rancore, di silenzi, di domande. Tra cui la principale, che pur affiorando a metà libra ossessiona Canobbio; qual è il motivo della depressione del padre?
Non è raro trovare fotografie e ritagli di giornale tra le pagine. L’autore si fa archivista, seguendo i desideri delle sorelle, custode di lettere e fotografie famigliari. Vaga nei luoghi in cui è possibile vedere il fantasma del padre e quello della propria infanzia. Se Torino può essere decifrata, allo stesso modo si può trovare una soluzione e mettere a tacere i dubbi che sorgono a causa dell’ ingrato. Tanto che il titolo di ogni capitolo è riferito ad una locazione torinese ben precisa, ognuna descritta minuziosamente nella propria storia e posizione. Una scelta che rallenta il ritmo incalzante dei ricordi, ma che segue parallela la carriera del padre durante la ricostruzione, dopo la seconda guerra mondiale. Una parola che Canobbio carica di rancore, dove si trova tutta la frustrazione del figlio contro quella malinconia che prende il papà senza un apparente motivo, dopo tutta la fatica fatta; la guerra, la famiglia, la ricostruzione. Una ricostruzione della città, coincidente con una demolizione di sé. L’autore racconta un dialogo incessante con una parte che non può rispondere o difendersi, imputata di capi d’accusa scoperti da poco, nuovi pezzi di una storia a cui Canobbio non ha prestato attenzione da bambino.
Un padre ingrato di un figlio confuso che diventa padre distratto, in una Torino a scacchi dove ci si può muovere saltando in direzioni diverse, con le mosse del cavallo. E poi le madre e le sorelle, che purtroppo compaiono sullo sfondo, sfocate rispetto a quello che è il punto focale paterno e forse proprio per questo libere di avvicinarsi al femminismo.
Il gioco non termina con una vittoria; Canobbio non trova l’ultimo anello della catena,
e mi pareva che sarebbe sempre mancato: si accumulavano le ragioni, si trovava magari una buona causa scatenante, ma il motivo profondo mi sfuggiva.
Il gioco finisce senza un vincitore, pieno di lettere e foto, privo di risposte. Al lettore che si aspetta una conclusione, il libro pare amaro. Ad un lettore che cerca conforto e solidarietà, forse sembra qualcosa di più.
