Ctrl+Z – Einmal ist keinmal

Tempo di lettura: 8 minuti

Ho imparato ad usare il computer quando avevo poco più di una decina d’anni – la questione morale di quando sia giusto introdurre i bambini alla tecnologia lasciamola per ora da parte: mi limito a rassicurarvi del fatto che naturalmente lo utilizzavo per innocue attività come scrivere temi o racconti (mi sognavo, da grande, scrittrice: beata gioventù!) o per esplorare i segreti del globo su Google Earth (il che evidentemente non è servito a nulla, dato che ho ancora una certa difficoltà nell’enumerare anche solo le province italiane).

Fatto sta che ho imparato presto l’utilizzo delle funzioni di base: naturale, quindi, che volessi ampliare la mia conoscenza con qualche trucco del mestiere – lasciamo anche qui da parte glorie e miserie del rapporto con la tecnologia negli anni successivi, tra un inaspettato successo nell’utilizzo di Illustrator per impaginare il giornalino della scuola e il coraggio che mi è poi mancato per iscrivermi a un corso di Digital Humanities durante la triennale – e, nello specifico, avevo ritenuto che conoscere qualche keyboard shortcut sarebbe potuto essere utile (almeno per mettere il grassetto e il sottolineato su word). 

Utile, in effetti, si è poi rivelato, e avrei potuto aspirare a una carriera di dattilografa, se fosse una professione ancora in auge (avendo nel frattempo abbandonato le velleità letterarie, comunque, se non altro ho una base di partenza per imparare a fare l’editor). Ma – ed arriviamo dopo un prologo eccessivamente lungo al succo della questione – pago lo scotto delle mie dita veloci sulla tastiera con un pesante prezzo, così come, del resto, penso accada a molti altri miei coetanei. 

Sì, perché se basta un secondo per cancellare un errore, Ctrl+Z e via, scomparso, come si impara a sbagliare?

Anche solo per scrivere queste poche righe ho già fatto ricorso al trucchetto non saprei nemmeno dire quante volte. «Saprei farne a meno?» mi chiedo. Forse no. Che aspetto avrebbe questo articolo se l’avessi scritto a mano? Probabilmente un cimitero di cancellature – o forse avrei dovuto usare la matita e poi ricopiare a penna “in bella copia”. 

Comunque non si tratta soltanto di imparare a pensarci bene prima di scrivere una frase. Per fortuna quello, se serve, lo sappiamo fare – o almeno mi piace ripetermerlo, pensando che in fondo qualche esame scritto (pochi: facoltà umanistica, dovevamo imparare qualche base di retorica) l’ho sostenuto anche io, e senza consegnare scarabocchi troppo indecorosi. No, non è solo una questione di capacità espressiva (che pure rimane: ma come facevano gli antichi, che dettavano?!). 

È che poi è difficile rendersi conto che non esiste un Ctrl+Z nella vita. 

Soprattutto in quest’ultimo anno, durante il quale i confini tra reale e digitale si sono sfumati sempre di più, mi sono accorta spesso che ogni volta che ho sbagliato qualcosa ci sono quasi rimasta male capendo che non avrei potuto fare un passo indietro e annullare tutto. Non c’era nessun tasto da schiacciare. Sbagliato era sbagliato, e basta. 

È una sensazione che ho avuto spesso anche altre volte. Se, come me, avete le mani de puina (di ricotta, ndr), sapete bene di cosa sto parlando – no, per essere annoverati nella categoria non basta che, una volta o due, vi sia caduto qualcosa. Facciamo degli esempi pratici: tenete a mente che questi sono solo quelli del repertorio 2020-1, così avrete un’idea di cosa intendo, quando mi riferisco all’essere maldestri

Era una calda giornata di luglio ed io avevo appena assemblato quella che mi illudevo sarebbe stata una bellissima e coloratissima crostata di frutta, dopo almeno due ore di lavoro (fai la frolla, cuoci la frolla in bianco, fai la crema pasticcera…è più difficile di quel che sembra!), ma, per le mie mani di puina, i 50 centimetri tra il tavolo e lo sportello del frigo erano una sfida troppo impegnativa, e così il risultato di tante fatiche si è spappolato ingloriosamente al suolo (sì, almeno la crema l’ho recuperata: regola dei cinque secondi…). Ecco, mentre stavo lì a guardare quel triste spettacolo, oltre che giustamente scocciata con me stessa (letteralmente 50 centimetri di spazio: sono riuscita a prendere una laurea, ce l’avrei potuta fare a svolgere questa singola semplice operazione), ero anche incredula: possibile che non ci fosse un modo di annullare quello che era appena capitato? Ci ho messo qualche attimo a capacitarmene: era successo, e basta. Non potevo tornare indietro e cambiare qualcosa, girare meglio la scena. Pessima la prima, e finiva lì. Qualche mese dopo, la storia si ripete, e di nuovo resto basita rendendomi conto che no, non c’è niente che si possa fare per cambiare il fatto che mi è appena caduto il piatto di risotto al radicchio che ci ho messo un’ora a cucinare: niente Ctrl+Z, e per pranzo pasta all’olio.

Ecco, a parte gli aneddoti divertenti (meno divertente è stato pulire la cucina), io mi sto convincendo che questa incredulità sia dovuta al fatto che sono, siamo, cresciuti in un mondo dove tutto è cancellabile, correggibile. L’errore nell’epoca della sua annullabilità tecnica. E non parliamo solo di cose irrilevanti, come piatti caduti, semafori rossi non visti (questa forse non è così irrilevante), mazzi di chiavi persi, o ultimi bicchieri che, la mattina dopo, preferiremmo non aver bevuto (naturalmente ogni riferimento è puramente casuale). Queste sono solo piccole scocciature, che alla fine rendono anche divertente la vita di tutti i giorni – soprattutto in tempo di quarantene, in cui sembra che un’unica, lunghissima domenica pomeriggio si trascini avanti per mesi. 

Ci sono cose come relazionarci, parlare con gli altri, che vengono modificate radicalmente dalla perpetua correggibilità che ci offrono i mezzi tramite cui comunichiamo. Se comunicare, in gran parte, diventa scambiarsi messaggi scritti, allora c’è sempre un’exit strategy facile: si può dire (cioè, scrivere) qualsiasi cosa, e in caso di ripensamento la soluzione è tenere premuto sopra al messaggio e cliccare “cancella – per tutti”. Tirandola un po’, questa abitudine a poter sempre correggere è forse anche il motivo per cui non ci stupiamo più di tanto, a parte qualche commento sarcastico che per fortuna ancora ci viene istintivo, quando qualcuno dei soliti volti del dibattito pubblico dice tutto, e poi il contrario di tutto, a stretto giro (fine della polemichetta: rapida e indolore, e senza “nomi e cognomi”, non vi potete lamentare). 

Nella realtà, però, le cose stanno diversamente. Quel che è detto è detto, quel che è fatto è fatto, e non ci sono correzioni possibili. Nemmeno rimediare a qualcosa può riportarci alla situazione di partenza, in cui l’errore non era stato commesso – mi rendo conto che l’esempio dei piatti che in Giappone vengono riparati con la colla dorata è un po’ banale ed inflazionato nel contesto della mia argomentazione, ma non me ne vengono in mente altri, perciò vi dovrete accontentare.

È molto facile allora lasciarsi prendere da una spirale d’ansia soffocante: se poi ci ricordiamo anche di teorie come il butterfly effect, le ansiette prendono il volo mentre ce ne stiamo paralizzati a pensare che ogni singola azione che facciamo è lì per sempre, soggetta a chissà quali imprevedibili conseguenze, irrimediabilmente. Ecco, sarebbe utile qui un aneddoto divertente come quello sulla torta caduta per terra, ma me li sono già giocati tutti prima: o meglio, il repertorio 2020-1 offre ancora qualche bell’esempio, come quello del mio gelato preferito finito per terra dopo appena due minuti (un grande classico), ma direi che non sono più calzanti nel discorso. 

Torniamo al punto: non c’è quindi scampo dal vivere sentendo il peso dell’irrimediabilità di ogni nostra più microscopica azione?

Una soluzione facile (anche troppo, infatti non è quella che propongo: kalepà ta kalà1) è dirsi che «einmal ist keinmal» – bellissimo gioco di parole, si aggiudica un posto sicuro nella mia top ten delle citazioni mai capite del tutto ma cionondimeno usate a profusione. Dai, non fate finta di non averla riconosciuta, l’abbiamo letto tutti L’insostenibile leggerezza dell’essere quando avevamo diciassette anni e ci sentivamo grandi intellettuali soltanto per il fatto di aver comprato un libro in edizione Adelphi. Ecco, banalizzando per farla breve, «einmal ist keinmal» significa che se le cose succedono una sola volta, è come se non fossero successe mai – e quindi che anche le più terribili si dissolvono via. Non dilunghiamoci sulle tesi di Kundera – onestamente, comunque, non me le ricordo bene: era un libro fuori dalla mia portata, affrontato con quella presunzione adolescenziale di cui poi per fortuna, dopo i venti, ci si vergogna. Era solo per dire che raccontarsi che «tutto passa ed è troppo insignificante perché possa davvero contare qualcosa» è una via d’uscita forse un po’ troppo auto-indulgente. 

Alla fin fine, credo, potrebbe essere più giusto fare invece pace con il fatto che è (anche) sbagliando che si impara: il che implica che, talvolta, per imparare serva proprio sbagliare. Permettetemi di sfoggiare ancora i miei studi letterari (mi scuserete, non ho tante altre occasioni per farlo), concludendo che le varianti d’autore sono una fonte importante per l’esegesi di un testo. Ovvero: sono proprio le opzioni scartate, le scelte sbagliate appunto, che servono a capire quella finale, consacrata volontariamente alla dignità letteraria. Esempio pratico (che tutti ricorderete da scuola): dal Fermo e Lucia a I Promessi Sposi.

Fedele alla mia migliore tradizione, mi sono dilungata anche troppo – ma solo sulle premesse e le parentesi: di sostanza ce n’è poca, quindi senza troppo sforzo intellettuale dovreste essere arrivati fino alla fine (se non altro perché volevate capire se, prima o poi, questo articolo presentasse una tesi o se fosse solo un delirante flusso di coscienza). Per sicurezza, riassumo cosa volevo dire (d’altronde all’università mi hanno sempre insegnato che, se non sai spiegare in poche frasi cosa hai scritto nella tua tesi, probabilmente non avevi idee molto solide): mi sembra che noi figli della rivoluzione digitale (volevo scrivere zoomers ma me la sono già tirata abbastanza) siamo cresciuti abituati alla rimediabilità di ogni nostro errore, pensando che con una serie di comandi tutto si possa annullare; plot twist, il mondo non funziona così e alla nostra formazione morale gioverebbe fare qualche stupidaggine old school e trovarsi poi a doversene assumere la responsabilità. È un terreno di pensiero interessante, perché ci interroga anche su come i media2 tramite i quali comunichiamo plasmino il contenuto stesso dei nostri pensieri e i nostri schemi di azione. Ma queste elucubrazioni dotte le lascio a quei pochi fortunati fra noi che hanno ancora una soglia dell’attenzione di più di 8 secondi. Io, anche per oggi, ho fatto la mia parte: e se poi mi accorgessi che ho scritto solo un’accozzaglia di frasi sconnesse, basterà premere canc e tutto sarà a posto.

1 Banalmente, “le cose belle sono difficili”, ma volevo flexare i miei 24 CFU di greco antico.
2 Non è inglese, è il plurale latino – ed ecco che ho flexato anche i 24 CFU di letteratura latina.

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