Gli Oscar di Linea20: Mank

Tempo di lettura: 4 minuti

Valutazione: 3.5/5

Ogni qualvolta fra le nomination agli Oscar appare un film riguardante la storia del cinema americano, è lecito aspettarsi un’ormai nota tautologia su Hollywood che avrebbe un debole per i film su Hollywood. Quest’anno è probabile che tale sorte tocchi a Mank di David Fincher, di ritorno alla regia dopo una pausa dal cinema che dura da Gone Girl del 2014. Il suo eminente soggetto è niente meno che la prima stesura della sceneggiatura di Quarto Potere di Orson Welles, film del 1940 dopo il quale nulla sarebbe più stato come prima. Protagonista è Herman J. Mankiewicz, loquace sceneggiatore della vecchia Hollywood, conversatore troppo brillante per non essere invitato alle feste delle élite, e al contempo troppo tagliente per non subirne le conseguenze. Fra un flashback e l’altro, seguiamo un Mankiewicz convalescente e stoicamente dedicato ai propri vizi (alcolismo in primis), mentre, nella solitudine di una tenuta nel deserto della California, prepara l’assalto cinematografico a uno degli uomini più potenti dell’America degli anni Trenta: il magnate del giornalismo William Randolph Hearst. 

Fino a qui, nessun problema. L’irradiazione di Quarto Potere nella cultura popolare è abbastanza ampia da accogliere senza troppa fatica chiunque voglia adagiarsi sotto la sua ala. Mank non si tira certo indietro dall’approfittarne: la scelta del bianco e nero, così come  quella di raccontare la storia tramite una serie di flashback, non è casuale, ma parte di un esplicito omaggio al capolavoro di Welles (che il montaggio non sia innovativo quanto quello del suo soggetto si può perdonare: è probabile che in nessun film lo sarà mai). Tuttavia, per quanto Mank si premuri di ricostruire meticolosamente il mondo hollywoodiano degli anni Trenta intorno ai suoi protagonisti, si sforza poco di renderne partecipi i suoi spettatori, troppo fiducioso che la fama di personaggi come William Randolph Hearst, Marion Davies o lo stesso Orson Welles sia rimasta sufficientemente intatta nell’immaginario collettivo da affascinare un pubblico ottant’anni dopo Quarto Potere. Ciò è una manna per i cinefili, che possono divertirsi a far notare come Charles Lederer, il giovane sceneggiatore che si unisce alla banda creativa di Mankiewicz in una delle prime scene del film, avrebbe in seguito lasciato il segno scrivendo La signora del venerdì e Gli uomini preferiscono le bionde per Howard Hawks. Mantenere viva l’attenzione di spettatori meno preparati, tuttavia, è compito più arduo, per il quale la sola avvolgente fotografia di Erik Messerschmidt potrebbe non bastare. 

Mank richiede molto ai  suoi attori, e fa bene. Le performance sono per la maggior parte perfettamente confezionate, e contribuiscono in modo decisivo ad evidenziare la crescente insofferenza reciproca fra Mankiewicz e i “poteri forti” di Hollywood. Gary Oldman rende con maestria e tecnica impeccabile il suo Mankiewicz, svettando pericolosamente vicino alle cime conquistate con Churchill in Darkest Hour (2017). Che le scene migliori di Oldman siano quelle (troppe poche) in cui vengono meno le ben arroccate certezze di Mankiewicz è, tuttavia, indicazione di due cose: innanzitutto, che nulla eleva una recitazione quanto un personaggio complesso in disaccordo con sé stesso, e che, nonostante quest’ultima appaia sullo schermo per neanche venticinque minuti, il film appartiene ad Amanda Seyfried. La sua Marion Davies, giovane attrice e moglie del tycoon Hearst, è l’inafferrabile perno emotivo della storia, nonché unico personaggio che nemmeno l’intuitivo Mankiewicz riesce a decifrare fino in fondo. 

Amanda Seyfried, nei panni di Marion Davies, eleva una Hollywood di avvolgente autoreferenzialità.

La performance della Seyfried dimostra un perfetto controllo del personaggio, la cui civetteria non sfocia mai nella volgarità e la cui amarezza non infinge la dignità di un’attrice (la Davies) che affronta con coraggio le conseguenze, personali e professionali, della propria decisione di sposare Hearst, uomo ricchissimo con oltre trent’anni in più all’anagrafe. La Seyfried riesce nell’impresa non semplice di rispecchiare non solo la complicità, prettamente platonica, che il suo personaggio sviluppa con Mankiewicz nella prima parte del film, ma perfino la nostalgia di cui è intinta la sua presenza nei flashback dello sceneggiatore. Se l’arrivo, nel film, delle vicende politiche intorno alle elezioni governatoriali dello stato di New York del 1934 colgono di sorpresa lo spettatore, risultando forse eccessivamente ingombranti, è anche a causa della trance in cui la performance della Seyfried ci ha fatto scivolare senza opposizione alcuna da parte nostra. 

Fra gli altri attori, merita sicuramente una menzione speciale Ferdinand Kingsley nel ruolo dell’amorale produttore Irving Thalberg. Charles Dance, nel frattempo, è una presenza imponente nel ruolo di William Hearst, anche se, soprattutto in luce di altri suoi ruoli recenti, è difficile non notare come la sua interpretazione, tecnicamente perfetta, finisca per risentire di un certo grado di prevedibilità (anche se è probabile che gli stessi Tywin Lannister e Lord Mountbatten impallidirebbero davanti all’impero mediatico di Hearst).

Nonostante la struttura azzardata e una sceneggiatura arguta, seppur a tratti incoerente, Mank funziona nel suo insieme, offrendo due ore di cinema impegnativo ma gradevole. La tensione su cui regge il film è basata su una capace gestione delle contrapposizioni fra il protagonista, i personaggi che lo circondano, e la sfida creativa di scrivere un capolavoro cinematografico. In tal senso, anche se assente per lunghi tratti di film, il contrasto fra Mankiewicz e Orson Welles è il più emblematico. I due sono accomunati dalla posizione di outsider rispetto ai giochi di potere dell’industria cinematografica; eppure, mentre Mankiewicz ci si trova quasi per principio, dopo una lunga carriera a esasperare la maggior parte dei pezzi grossi, Welles, ventiquattrenne enfant prodige del teatro, è invece preceduto da una fama che lo rende oggetto di diffidenza agli occhi dell’establishment. Nella scena finale, da una reazione furiosa di Orson alla richiesta di Mankiewicz di venire accreditato come sceneggiatore, spunta l’intuizione dietro una delle scene più iconiche di Quarto Potere. Il conflitto fra i due artisti, anche se non quello fra i due uomini, si risolve nel sublime. 

di Arturo Gorup de Besanez

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