Il Giappone oltre le metropoli e gli stereotipi – III

Okinawa

tempo di lettura: 5 minuti

Il Giappone è un arcipelago, quindi non ha confini terrestri con alcun paese, ma in alcuni casi l’aereo è l’unica alternativa anche per gli spostamenti interni. Uno di questi casi è Okinawa: una prefettura formata da numerosissime isole all’estremo sud del paese, più vicina a Taiwan che alle isole principali del Giappone, la quale in un passato nemmeno troppo lontano era un regno indipendente, il regno delle Ryūkyū (a cui appartenevano anche alcune isole della prefettura di Kagoshima).

Moltissimi giapponesi volano a Okinawa durante l’estate, alla disperata ricerca di un clima più sopportabile rispetto al caldo umido e soffocante che avvolge le isole principali dalla fine della stagione delle piogge fino a settembre inoltrato. Le isole di Okinawa sono ovviamente caldissime, ma la loro posizione sperduta nel Pacifico le rende molto più ventilate e, in ogni caso, l’acqua è così cristallina che si passerebbe volentieri l’intera giornata a bagno. Credo di aver visto un mare così bello e trasparente solo in Sardegna, ma la differenza è che Okinawa è ancora poco frequentata e non si devono sborsare somme ingenti per un lettino. Pur essendo molto turistica, non è così famosa tra i turisti stranieri: nei miei cinque giorni lì, ho incontrato principalmente famiglie e coppie giapponesi venute da tutto il paese a passare le vacanze.

Un’eccezione è rappresentata da Naha, la città capoluogo, che si trova sull’isola principale ed è servita dalla maggior parte dei voli per la prefettura. Durante l’atterraggio si sorvolano alcune isole minori e, dall’alto, si distinguono già il bianco accecante della sabbia e l’azzurro dell’acqua, così intenso da sembrare quello di una piscina. Il sole, che era proprio sopra l’aereo, ne proiettava l’ombra sul mare. A Naha gli stranieri abbondano: molti fanno una tappa qui, perché i voli da Tokyo e Osaka sono abbordabili e perché anche sull’isola principale ci sono spiagge niente male e un clima piacevole – oltre a un antico castello che purtroppo è stato distrutto da un incendio pochi mesi dopo che l’ho visitato, e a un suggestivo viale pieno di negozi di souvenir e di dolcetti al gusto di patata dolce – mentre le isole minori non sono molto facili da raggiungere. 

Per ragioni di tempo, quindi, molte persone si accontentano di Naha. Già qui si respira un’aria diversa, si ascolta un giapponese diverso, si assaggiano sapori diversi. Pur essendo un capoluogo, Naha è piccola, vivace lungo il viale Kokusai-dōri ma pacata nel resto della città, servita da qualche autobus e da una monorotaia rialzata, ma senza gli intrecci di metropolitane e treni locali che caratterizzano le altre città giapponesi. È appesantita da qualche centro commerciale o business hotel, che ne hanno innalzato lo skyline, ma per lo più è fatta di edifici bassi e antichi, di insegne sbiadite, di pubblicità della Orion – la birra locale – e, appunto, di negozi specializzati in patate dolci (vorrei tanto che il cibo giapponese che ha conquistato il mondo non fosse il sushi ma la patata dolce). Però, per quanto pittoresche, Naha e l’isola principale non possono competere con le isole minori. Per questo, il secondo giorno ho preso un traghetto e in due ore sono arrivata a Zamami, una delle isole del Parco Nazionale Kerala, un’isola così piccola che, dal nostro ostello che si trovava al suo centro, a piedi si impiegavano 20 minuti per raggiungere la punta più a ovest e sempre 20 per quella più a est. C’è un solo autobus che fa il giro dell’isola ogni mezz’ora circa, ma in realtà è sufficiente camminare, se non si ha necessità di spostarsi durante gli orari più caldi. Ma la cosa più scioccante è che a Zamami non c’è nessun konbini. Zero, giuro. Meglio arrivare provvisti di contante. 

Ero con un’amica messicana con cui parlavo spagnolo, e appena entrate in ostello la ragazza alla reception ci ha salutate con un Hola!: era cilena e si trovava lì da qualche anno, per gestire il locale e vivere in modo semplice. Le ho voluto bene dal primo istante.

A Zamami, in realtà, non c’è molto da fare. Non ha niente a che vedere con le isolette del Mediterraneo famose per la loro movida. La nostra giornata consisteva nello svegliarci tardi, fare colazione, andare a una delle due spiagge, nuotare, meravigliarci della sabbia così bianca e dell’acqua così azzurra, mangiare qualcosa di leggero, nuotare ancora, meravigliarci ancora, tornare in ostello, chiacchierare con gli altri ospiti, fare una videochiamata con qualche amico a casa, cenare in uno dei pochi ristorantini dell’isola e addormentarci. Di ritorno dalla spiaggia scorgevamo qualche sfumatura di rosa verso le sette (in Giappone il sole tramonta sempre molto presto, perché non hanno l’ora legale), ma poi il buio calava tutto d’un colpo e con esso si accendevano le stelle: così tante credo di non averne mai viste. Durante le passeggiate serali tra ristorantino e ostello, sentivamo le cicale, le rane, gli uccellini nascosti nella fitta vegetazione. Un giorno ci siamo iscritte a un’escursione in canoa: a Zamami ci sono più agenzie specializzate in sport acquatici che supermercati. La guida era un ragazzo nippo-marocchino appassionato di oceano, i nostri compagni di gita erano due coppie di giapponesi e una ragazza nippo-tailandese che alloggiava nel nostro stesso ostello. Tutti in fila, siamo saliti sulle canoe e abbiamo raggiunto un’isoletta disabitata, così piccola che bastava salire su una collinetta al suo centro per vederne tutto il perimetro. Da lì abbiamo fatto snorkeling e ci siamo sdraiati al sole. Chissà cosa si prova a vivere per sempre in un’isola del genere. Al quarto giorno, ammetto, iniziavo a sentire il bisogno di una metropoli e la voglia di entrare in un konbini per comprare uno dei tanti snack strani che ne affollano le corsie, ma mi sono pentita di questo mio desiderio appena scesa dall’aereo a Narita, la sera del quinto giorno: l’umidità mi è arrivata addosso come l’aria bollente di un phon. Sulla metro verso casa – un tragitto di un’ora e mezza – ho chiuso gli occhi e con la mente mi sono rifugiata un’ultima volta sulle spiagge bianchissime e poco affollate di Zamami, nel suo calore accogliente e nel suo spirito assonnato e gioioso.

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