L. è una fia turca che studia ebraico, e lo studia nella mia stessa classe. Ha gli occhi larghi e scuri, occhialini tondi e spessi, capelli mori, un fare un po’ lascivo ma irriverente e una voce leggermente arrochita. Anche L., come la maggior parte degli studenti internazionali della Tel Aviv University, è ebrea. Spesso mi chiedono, oh, tu: ma com’è che se non sei ebreo e sei qua in Israele?
Eh, sai com’è – evado spesso la questione – mi interesso di politica del Medio Oriente.
Ah, beh. Gran bel puttanaio. No, sai, perché per me che sono ebreo, anche se americano, essere in Israele è un po’ come essere a casa mia.
Ah, capisco.
E non è facile capire uno che viene qua che non è ebreo, come te.
Uh, vedrò se posso fare qualcosa.
Ma insomma dicevo: c’è questa ragazza turca che si chiama L. Anche lei mi chiede perché sono qui e anche con lei evado la questione.
Il giorno che Trump vince le elezioni USA, in qualsiasi classe si entri, gli studenti fremono con gli sguardi incollati al telefono. Si respira un’aria che manco dovessero arrivare gli eserciti arabi come prima dello Yom Kippur nel ’73. Poco importa che il professore spieghi l’evoluzione della letteratura israeliana passando da Moshe Shamir per arrivare a Grossman, gli studenti fremono attaccati al cellulare.
Durante la lezione di ebraico gli sguardi cominciano a farsi abbattuti. Gli statunitensi soprattutto: pare gli abbiano ammazzato uno in casa. Non ci credono. Solo uno degli americani sfoggia un sorriso che pare uno squarcio da un orecchio all’altro. In classe tiene il berretto e gli occhiali da sole, mangia merendine ed esce a comprarne altre. Mangia altre merendine.
Via, ragazzi, esorta gentile la professoressa, se non volete un presidente del genere questa è l’occasione per venire in Israele.
Gli studenti esultano. È proprio quello che voglio fare, dice E., anche lei dagli USA. È tra gli studenti che hanno il broncio più nero. Dalle mie parti si direbbe un muso lungo fin per terra.
Si intromette A., sono tutti ladri, però c’è chi è più ladro di altri. Ora sono tutti impazziti, sono spaventati che Trump possa sganciare il nucleare ovunque. Ma non è così. Abbiamo bisogno di qualcuno che faccia di nuovo grande il nostro paese.
Io deglutisco e insulto le divinità dello Stato Veneto. In silenzio.
È allora che E. gli salta alla gola. Ad essere sincero non capisco una sola acca di quel che si sbraitano contro. Sono scene da guerra civile. Io torno a fare l’esercizio di ebraico sotto i colpi dell’artiglieria pesante.
Usciamo dalla classe e L., la turca, da sotto i suoi occhioni scuri mi fa, io non capisco proprio questi americani. Non capisco cos’è che hanno da preoccuparsi. Dai, ragazzi, io sono turca: io sì che so cosa significa avere un dittatore come presidente.
La scruto dietro quei suoi occhi scuri. Ha la mia età. Sei stata a piazza Taksim, tre anni fa?
Le proteste per Gezi park, intendi?
Quelle.
C’ero, risponde abbassando gli occhi, ma i miei genitori non lo sanno.