L’Abruzzo mo muore.
Sono queste le parole con cui mia sorella mi ha scioccata l’altra sera. Ed è stata un’epifania. La neve, il Pescara che esonda, il terremoto. Sembrano scene tratte da uno dei tanti film apocalittici degli ultimi anni, ma no: questa è la realtà, ed è nel giardino di casa mia, dietro l’angolo, in fondo alla strada, ovunque. L’Abruzzo è in ginocchio: economicamente prima di tutto (e già da un po’), strutturalmente e ora anche fisicamente. C’è una sensazione che non mi abbandona ogni volta che parto. Mi sembra di scappare, di scappare dalla mia terra in cerca di un futuro migliore, ma abbandonandola a se stessa. Di non fare nulla per contrastare il corso degli eventi che la stanno inghiottendo. Di tradirla. Non so, ecco. Forse sono troppo scioccata ora, pensando a quelle anime rinchiuse tra macerie di neve a Farindola, pensando alle persone che dormono fuori casa a L’Aquila, a chi è senza luce da giorni. E tutto ciò che mi pullula in testa è rabbia, delusione, sconforto e un senso di incapacità, impotenza nel risolvere tutto questo. Saranno sempre le periferie del mondo – e certo alcune periferie molto più dell’Abruzzo – a pagare per le colpe di ognuno, per l’avarizia di pochi, per la sbadataggine di alcuni, per l’indolenza di tutti gli altri. E c’è anche qualcuno che ancora si ostina a negarlo, il riscaldamento globale. Davvero “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. La strada che abbiamo intrapreso è un vicolo cieco, un’andata senza ritorno, ma il treno corre veloce e nessuno sembra intenzionato a fermarlo. O a deviarlo, almeno. “L’Abruzzo mo muore” è il paradigma di tutto questo: è sgrammaticata in italiano, ma perfettamente grammaticale nel parlato influenzato dal dialetto. Indica un futuro imminente e segnato, determinato. Un’andata senza ritorno, per l’appunto. E ciò che conta è che la situazione è grave, e non solo in Abruzzo, perché questi mi sembrano solo i prodromi di qualcosa di più… di più terribile. E le parole più adatte sono quelle, soavemente dolorose, di Leopardi ne La ginestra:
“Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.”
Forse però non tutto è perduto, non tutto:
“L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune.”
Di Clara Cuonzo