IN PRIMA LINEA
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Mishima non mi è mai andato particolarmente a genio. Sarà l’esibizionismo militante e militarista, il presenzialismo eccentrico da poeta-pop star, o semplicemente quel sorriso sardonico sul corpo da bodybuilder con katana sguainata nella miriade di foto che lo ritraggono. D’altronde, se a 45 anni ti uccidi in diretta televisiva attraversandoti da parte a parte con una katana qualcosa che non va c’è.
Fatto sta che ho sempre avuto un rapporto controverso con Yukio Mishima, e oggi ho pensato di parlarvene un po’, partendo proprio da un “Mishima che racconta Mishima”, il romanzo autobiografico Confessioni di una maschera (Kamen no Kokuhaku) del 1949.
“Confessioni di una maschera” è stato spesso letto in perfetta linea con le premesse del titolo: una confessione, sincera e accorata della vita dell’autore, una sorta di monologante Mishima-unmasked degno dei documentari di Netflix sulle popstar (stiamo guardando proprio te Miss Americana!), il cui selling point principale, a detta di editori di mezzo globo terrestre era quello di svelare “l’uomo dietro la maschera”.
Il tutto messo su carta facendo il verso alla tradizione del romanzo confessionale giapponese, lo shi-shōsetsu (私小説), che nella storia della letteratura giapponese ha già una fortuna particolarmente travagliata, considerato tanto come massima “espressione della giapponesità”, quanto esecrabile violazione della stessa e brutta copia del romanzo dell’io europeo, in uno scontro tra critici letterari che in Italia raggiunge forse soltanto l’eterna lotta tra pandoro e panettone. In ogni caso, la premessa di ogni shi-shōsetsu che si rispetti è sempre la stessa: una (più o meno credibile) dichiarazione di onestà autoriale, buoni sentimenti, e sincerità espressiva che illudono il lettore di poter sbirciare nella vita dell’autore come da un buco di serratura. Tutto ciò che il romanzo-confessione di Mishima non è.
Le date non tornano, gli alberi genealogici hanno qualche ramo di troppo, e il testo poggia su una serie di contraddizioni e sovrapposizioni dei piani temporali, destreggiandosi sempre meravigliosamente: tra sogni premonitori convenientemente ricamati nei punti chiave dell’intreccio, incontri fatali nel posto giusto al momento giusto che nemmeno gli sceneggiatori di Beautiful nei loro picchi creativi, ricordi “sbagliati”, informazioni che cambiano di capitolo in capitolo e un io narrante che ha addirittura la tracotante presunzione di ricordarsi il momento in cui è venuto al mondo, viene proprio da chiedersi se la maschera del titolo Mishima se la sia mai tolta.

Ma andiamo per ordine. Kochan/Mishima ha quattro anni quando scopre attraverso una balia che l’immagine di un cavaliere che fissa estatico ogni giorno nel suo libricino illustrato in realtà è Giovanna d’Arco, e ne resta profondamente deluso, come se fosse stato ingannato. Lontano da una narrazione pop che tende a fare di Mishima un’icona LGBTQ+ progressista, leggendo Kamen no Kokuhaku ci si rende ben presto conto che i modelli eroici ed erotici di Kochan rispondono a un ideale di mascolinità estremamente tradizionalista: fognaioli nerboruti, vigili del fuoco che trasportano tronchi in divisa, controllori, soldati dai fisici scultorei, fino all’ideale estetico massimo di Kochan, la figura di San Sebastiano in martirio raffigurato da Guido Reni. Tranquilla Giovanna d’Arco, ti vogliamo bene noi.
“Un giovane di singolare avvenenza stava legato nudo al tronco dell’albero, con le braccia tirate in alto, e le cinghie che gli stringevano i polsi incrociati erano fermate all’albero stesso. Non si scorgevano legami d’altra sorta, e l’unico rivestimento della nudità del giovane consisteva in un ruvido panno bianco che gli fasciava mollemente i lombi.” (Capitolo II, p. 19)
Quella che Kochan elabora è, quindi, un’estetica tutta eros e thanatos non senza sbavature greco-classiche (di lì a poco, nel ‘52 Mishima sarebbe andato in Grecia alla scoperta della statuaria classica), con una fissazione particolare per il sangue, la carne, la guerra, la morte, i “principi trucidati” che vivono “vite tragiche” (悲劇的) nel senso nietzschiano e muoiono di morti violente che diventa presto oggetto di un voyeurismo sadico. E io che a cinque anni giocavo con i Lego…
“Quantunque da piccolo leggessi tutte le fiabe su cui riuscivo a mettere le mani, le principesse non mi piacquero mai. Volevo bene unicamente ai prìncipi; e tanto più ne volevo ai principi uccisi o destinati alla morte. Bastava che un giovane perisse di morte violenta perché lo amassi perdutamente.”
“La mano sinistra, guantata di cuoio bianco, stringeva l’arco; la destra posava sul ramo d’un albero della foresta antica; e con sembiante grave, imperioso, il principe chinava gli occhi sulle fauci terrificanti del drago furibondo… Se il destino avesse voluto che questo principe fosse uscito vincitore dallo scontro col drago, come debole sarebbe stato il suo fascino sopra di me. Ma per fortuna il destino aveva decretato ch’egli dovesse soccombere.” (Capitolo I, pp. 10-11)
Grandi squalificate dalle Confessioni sono le donne. La figura ieratica della nonna-sacerdotessa che ama Kochan di un amore asfissiante lascia presto posto a figure sempre più sbiadite: la signorina anemica del bus che fissa apatica il paesaggio o la sensuale Sumiko da cui Kochan è spaventato, fino alla raffinata Sonoko, vittima di un amore-recita che altro non è se non l’ennesima sadica fantasticheria di Kochan. Le donne delle Confessioni sono invidiate, come una trionfante Cleopatra che fa il suo ingresso a Roma, ammirate, come l’eccentrica illusionista Tenkatsu col suo “portamento da eroina”, temute per la loro sessualità come Sumiko, e non di rado guardate con curiosità quasi scientifica o collezionate “come medaglie” come dice Kochan, ma mai genuinamente amate, complice forse più il maschilismo di fondo che l’omosessualità del protagonista.

Eppure a volte la maschera del sadico cade a terra con un tonfo sordo frantumandosi in mille pezzi: è qui che emerge un Mishima che ha paura della morte, del sangue, del giudizio dei coetanei; si vergogna del suo essere diverso, non si capisce, e si sente costantemente come un attore sul palcoscenico, pronto a cambiare così tante maschere da non ricordarsi più quali indossa e quali no. È un Mishima che si sente addosso lo sguardo terribile dei compagni di classe quando si spoglia in piscina, che finge una febbre perché ha paura di arruolarsi e morire sotto una bomba, che si guarda allo specchio e non si piace, che ha fretta e paura di crescere, che prova goffamente a farsi piacere le ragazze per diventare come le figure virili da cui è attratto, e che ha un tuffo al cuore quando il ragazzo di cui è innamorato gli sorride.
“Voleva dire che tenevo alla vita, in fin dei conti? E quell’impulso completamente automatico per cui sempre mi avventavo col cuore in gola verso il rifugio più a portata… che cos’era, anche questo, se non volontà di vivere? E poi, tutt’a un tratto, l’altra mia voce si levava in me, dicendomi che mai e poi mai avevo desiderato sul serio di morire.” (Capitolo III, p. 74)
“Non soltanto Omi doveva esser rimasto a vagabondare per conto suo fin dalle prìme ore del mattino, ma anche mi dava il benvenuto col suo sorriso inimitabile, cordiale e ruvido insieme, dava il benvenuto proprio a me… Quanto avevo agognato quel sorriso, il bagliore di quei giovani denti così bianchi!” (Capitolo II, p. 31)
“La divisa, è tutto qui! perché le sta così attillata alle forme.” Superfluo aggiungere che non avevo mai provato neanche l’ombra di quell’attrazione sessuale verso le bigliettaie degli autobus che le mie parole sembravano sottintendere.” (Capitolo III, p. 54)
“Una cruda sensazione carnale divampò dentro a me, m’impresse le guance d’un marchio rovente. Mi sorpresi a fissare il mio compagno con occhi lucidi, cristallini… Fu allora che m’innamorai di lui. Per me fu quello il primo amore della mia vita.” (Capitolo II, p. 32)
Oppure è anche questa finzione? In fin dei conti anche questo è un altro gioco, un inganno, una pirotecnica mistificazione del se’, in cui Mishima, abile interprete che conosce a menadito le aspettative del suo pubblico, cambia continuamente volto, senza che ce ne accorgiamo: è un erotismo dell’artificializzazione dell’io e a confessare non è stata forse una maschera tutto questo tempo?
“La vita è un palcoscenico, dicono tutti… ero fermamente convinto che quella massima corrispondesse alla verità, e che io avrei dovuto recitare la mia parte sul palcoscenico senza mai tradire, neppure una volta, il mio autentico io.” (Capitolo III, p. 53)
Nota: il testo riportato in questo articolo è stato estratto dalla traduzione edita da Feltrinelli del 2004
Snake Cats, 「能面」 彦根城 – 滋賀
Immagine da Wikipedia Commons
Foto di Michelangelo Nardi
